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Questo articolo è stato pubblicato il 18 gennaio 2014 alle ore 10:45.
L'ultima modifica è del 23 gennaio 2014 alle ore 16:30.

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Sono passati 30 anni. Sembra ieri, ma è cambiato tutto. Lo sport, il modo di vivere e di pensare, il mondo intero. 30 anni fa il ciclismo voltava pagina con un primato storico, il record dell'ora, conquistato da Francesco Moser ai 2160 metri di Città del Messico nella pista del Centro Deportivo. Il primato da battere era quello di Eddy Merckx, il Cannibale, il corridore più forte mai apparso nella storia di questa disciplina. Il belga lo aveva fatto nel 1972, al termine di una stagione tremenda e senza pause. E ci riuscì alla sua maniera: con forza e rabbia, senza un minimo di preparazione specifica. Quando finì, pallido e stravolto, giurò che mai più l'avrebbe rifatto. Mai. Non stava neanche in piedi: aveva la bava alla bocca e due solchi profondi in mezzo alle guance. In un' ora aveva percorso 49,431 km, un primato che sembrava un muro invalicabile perchè Merckx era il migliore, un marchio di qualità incomparabile.

Quel muro fu valicato, ben due volte, da Francesco Moser, che in quel gennaio 1984 aveva quasi 33 anni e sembrava avviato a un inevitabile tramonto agonistico. Da un po' il vecchio Leone faceva cilecca. L'uomo delle tre vittorie consecutive alla Roubaix, il campione del mondo a San Cristobal, l'aspro nemico di Giuseppe Saronni, non ruggiva più come ai vecchi tempi.

Ci voleva un cambio di passo, qualcosa che gli risvegliasse la sua rabbia antica, l'orgoglioso cuore di combattente. Così, supportato dai preparatori dell'Equipe Also-Enervit, che lo avevano stuzzicato dicendogli che nell'impresa del Cannibale c'era molta approssimazione, Moser si getta a capofitto in questa nuova avventura. Un'avventura senza precedenti che, unendo la scienza allo sport, avrebbe rivoluzionato il ciclismo.

Perchè il ciclismo, fino a quello spartiacque, era sempre la stessa minestra condita dalla fatica e dal sudore. La vecchia zuppa del contadino che lascia la terra per cominciare un'altra vita grama dove poi bisogna ancora faticare. Su una bicicletta sempre uguale: due ruote, un telaio, manubrio e sellino. Sempre quella dai tempi di Girardengo e del Diavolo Rosso, di Fausto e Gino, di Anquetil e Merckx. Quella che per muoversi bisogna pedalare. Quella con cui, nel dopoguerra, si va anche a lavorare, prima della Lambretta e della Seicento. Moser, che sente odor di impresa, attacca il primato di Merckx. Lo fa due due volte. E sempre con successo. Nel primo, il 19 gennaio 1984, migliora il record di ben 1376 metri abbattendo il muro dei 50 all'ora. Nel secondo, il 23 gennaio, Moser fa il suo capolavoro percorrendo in una 'ora 51 km e 151 metri. Moser supera quindi se stesso, e tutti gli scettici che gli avevano dato del matto. "Va por la hora! Va por la hora!" grida lo speaker nell'aria leggera e rarefatta di Città del Messico mentre i giornalisti italiani presenti, con l'adrenalina nel filo, telefonano alle redazioni dei giornali.

Di origine povera, di un paesello trentino - Palù di Giovio- che produce con uguale intensità vino e preti, Moser è campione antico che pedala con la scienza e col cuore, con le ruote lenticolari e una bici futuribile. Mario Fossati, grande narratore del ciclismo, scrive così: «A me stasera, a Città del Messico, pare che non unicamente il record ell'ora abbia cambiato pagina, ha voltato pagina pure il ciclismo. Le antiche regole dell'antico sport ne usciranno sovvertite».

Davvero parole profetiche, quelle di Fossati. Nell'aria leggera dell'altopiano, davanti alla maestosità del Santuario di Nostra Signora di Guadalupe, Moser rivoluziona il ciclismo. Ma non lo fa da solo. Lo fa con uno staff di medici e scienziati, guidati dal controverso professor Conconi, che studiano ogni particolare con l'aiuto dei computer, dei profili aerodinamici e di una alimentazione che non lascia nulla al caso.

Tabelle, progressioni, ripetute. Test col frequenzimetro che calcolano i battiti cardiaci fino alla soglia in cui i muscoli cominciano a produrre acido lattico in eccesso. E nell' organismo si esauriscono zuccheri e carboidrati, che sono la benzina del motore di un atleta. Tutto molto bello, tutto molto futuribile. Tanto è vero che Moser, sull'onda del record, torna in Italia e in primavera fa sfracelli. Vince la Milano-Sanremo, conquista il suo primo Giro d'Italia polverizzando, nell'ultima cronometro di Verona, uno sbalordito Laurent Fignon, ormai convinto di essersi lasciato alle spalle quel diavolo di un trentino.

Una seconda giovinezza, quella di Moser, che lo porta a tentare altre imprese. Nel 1986 al Vigorelli di Milano conquista un altro record, quello a livello del mare, sfondando la porta dei 49 km, ritenuta la soglia dell'uomo, una sorta di estremo avamposto che non prevede lasciapassare.

Anni trionfi, ma anche di sospetti e polemiche perchè la scienza e la medicina, nel ciclismo, cominciano a fare pesanti danni aprendo la strada al doping ematico. L'emotrasfusione, pratica inventata da Francesco Conconi, angelo e demone della medicina sportiva, è condannata dopo i giochi di Los Angeles.

A questo proposito, Moser non prova imbarazzo. «Molti hanno cercato di macchiare quell'impresa, ma nessuno trasgredì le regole», dice Francesco 30 anni dopo. «L'emotrasfusione non era neppure vietata. Se io l'ho praticata? Io non l'ho mai detto, l'hanno detto altri ma sono insinuazione che non hanno sernso. Come se macchiassimo le vittorie di Bartali e Coppi, dicendo che hanno preso delle sostanze che poi sono state vietate. La vera novità furono gli allenamenti col cardiofrequenzimetro, le prove ripetute in salita con bici da pista, il manubrio a corna di bue...».

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