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Questo articolo è stato pubblicato il 21 gennaio 2014 alle ore 18:38.
L'ultima modifica è del 21 gennaio 2014 alle ore 18:40.

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(Ansa)(Ansa)

Ieri sera, a fine dei nostri lavori, esponenti della tua maggioranza hanno chiesto le mie dimissioni da presidente per il "livore" che avrei manifestato nel corso del mio intervento.
Leggo da un dizionario on line che la definizione del termine corrisponde più o meno a "sentimento di invidia e rancore".

Ecco, caro Segretario, non è così.
Non nutro alcun sentimento di invidia e tanto meno di rancore. Non ne avrei ragione dal momento che la politica, quando vissuta con passione, ti insegna a misurarti con la forza dei processi. E io questo realismo lo considero un segno della maturità.

Non mi dimetto, quindi, per "livore". E neppure per l'assenza di un cenno di solidarietà di fronte alla richiesta di dimissioni avanzata con motivazioni alquanto discutibili.
Non mi dimetto neppure per una battuta scivolata via o il gusto gratuito di un'offesa. Anche se alle spalle abbiamo anni durante i quali il linguaggio della politica si è spinto fin dove mai avrebbe dovuto spingersi, e tutto era sempre e solo rubricato come "una battuta".
Mi dimetto perché sono colpito e allarmato da una concezione del partito e del confronto al suo interno che non può piegare verso l'omologazione, di linguaggio e pensiero.
Mi dimetto perché voglio bene al Pd e voglio impegnarmi a rafforzare al suo interno idee e valori di quella sinistra ripensata senza la quale questo partito semplicemente cesserebbe di essere.

Mi dimetto perché voglio avere la libertà di dire sempre quello che penso. Voglio poter applaudire, criticare, dissentire, senza che ciò appaia a nessuno come un abuso della carica che per qualche settimana ho cercato di ricoprire al meglio delle mie capacità.
Auguro buon lavoro a te e a tutti noi».

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