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Questo articolo è stato pubblicato il 30 gennaio 2014 alle ore 06:45.

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Con il Brent caparbiamente inchiodato oltre 100 dollari al barile e la sorprendente abbondanza di shale oil negli Stati Uniti si fatica a crederlo. Eppure sono tempi sempre più difficili per le compagnie petrolifere, in particolare per le major, oberate da costi sempre più esorbitanti e tuttavia incapaci di espandere la produzione e i profitti.
Royal Dutch Shell, seguita poche ore dopo da Exxon Mobil, inaugura oggi la stagione delle trimestrali per il settore. Ma gli investitori sanno già cosa attendersi. La settimana scorsa il gruppo anglo-olandese, per la prima volta da dieci anni, ha diffuso un profit warning per preparare il terreno all'annuncio di un crollo degli utili di quasi il 40% nel 2013, a 16,8 miliardi di dollari. Nello stesso anno i suoi investimenti (capex) sono al contrario aumentati di circa il 50% a 44,3 miliardi: un'enormità, che ha indotto Shell ad accelerare le dismissioni di asset. Proprio ieri la major ha ceduto per 1 miliardo di $ a Qatar Petroleum International il 23% di un giacimento nell'offshore brasiliano, mentre pochi giorni fa aveva ceduto per una cifra simile una quota del progetto Wheatstone Lng, nel gas australiano.
Anche il gigante americano Exxon non se la passa bene: arrivato tardi – e spendendo troppo – nello shale Usa, è stato costretto a pesanti svalutazioni e per due anni ha visto la sua produzione di idrocarburi diminuire, prima di un lieve recupero nel 2013. Anche i suoi investimenti hanno superato 40 miliardi di dollari nel 2013, così come quelli della connazionale Chevron, che invece presenterà i conti domani, per cui l'esplosione dei costi rappresenta un fardello ancora più pesante, considerate le dimensioni ridotte: le sue spese sono più che raddoppiate rispetto al 2010 e per il 2014 non potranno essere abbassate, tanto che la Sec – preoccupata per la sua liquidità – le ha chiesto di fornire maggiori delucidazioni al riguardo.
A dispetto di tutta la retorica sul miracolo shale negli Usa, espandere la produzione di idrocarburi – o anche solo compensare il declino dei vecchi giacimenti – al giorno d'oggi è in realtà una sfida difficilissima. La tecnologia (e le quotazioni del greggio a lungo elevate) hanno in effetti consentito di estrarre risorse un tempo irrecuperabili. Ma il fracking – così come le trivellazioni in alto mare o l'estrazione di greggio da sabbie bituminose – è un procedimento costoso. Esaurite le risorse "facili", inoltre, le majors si stanno affidando sempre più spesso a megaprogetti di elevatissima complessità, che presentano difficoltà tecniche inedite e spesso si trovano in aree pericolose, difficili da raggiungere o afflitte da condizioni climatiche estreme. Progetti che tra l'altro richiedono molti anni di lavoro per vedere la luce e che rischiano di arrivare in produzione quando il mercato è in condizioni diverse rispetto a quando si è avviata la pianificazione.
Un caso scuola è quello di Kashagan, in cui sono coinvolte sia Shell che Exxon (con l'Eni e altre società): il giacimento kazakho, dopo una falsa partenza in settembre, è ancora fermo per problemi tecnici a una conduttura, dopo oltre dieci anni di lavoro e investimenti che ormai si aggirano intorno a 40 miliardi di dollari, il quadruplo rispetto alle stime iniziali. Shell ha speso miliardi anche nell'Artico, per esplorazioni che finora non hanno fruttato nulla. In società con Exxon e Chevron (quest'ultima addirittura al 50%), la major anglo-olandese è inoltre coinvolta in Gorgon: un progetto faraonico per sviluppare risorse di gas e un impianto di liquefazione al largo dell'Australia, in un'area particolarmente delicata dal punto di vista ambientale. Il cartellino del prezzo in questo caso è arrivato alla cifra impressionante di 52 miliardi di dollari, il 40% oltre il budget iniziale. E un quarto del lavoro è ancora da realizzare.
@SissiBellomo
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