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Questo articolo è stato pubblicato il 01 febbraio 2014 alle ore 18:02.
L'ultima modifica è del 01 febbraio 2014 alle ore 19:53.
Negli anni '90 e Duemila Hong Kong si è trasformata in centro finanziario e tecnologico, rispondendo in buona parte alle nuove necessità della Cina e delle sue continue riforme economiche. Da qualche anno Hong Kong è il terreno di prova della convertibilità del renminbi: si aprono conti nella valuta cinese, s'investe in bond, si finanziano commerci.
"Per la Cina Hong Kong è la città internazionale più vicina, per il resto del mondo è la più internazionale delle città cinesi", spiegava qualche giorno fa Li Xiaojia, il direttore esecutivo della Exchanges and Clearing Limited, la holding della Borsa di Hong Kong. Secondo Li, il compito vitale della ex colonia è essere avanguardia della Cina: "Dobbiamo sempre pensare che quella cosa che hanno in mente a Pechino, l'obiettivo che vogliono conseguire, non lo possono raggiungere senza d noi. Ora siamo la finestra internazionale della Cina. Fra dieci anni, quando anche loro avranno un sistema finanziario, regole e istituzioni internazionali come le nostre, dovremo incominciare a pensare cosa la Cina vuole essere nel decennio successivo".
Le calze bianche
A prima vista sembra un comportamento gregario: ma in questa fatica di Sisifo, alla fine di ogni scalata della montagna cinese, Hong Kong diventa sempre più ricca, rigenera se stessa, rafforza una sua personalità economica e politica. Nel 2013 la crescita è stata del 3,2% e quest'anno si avvicinerà al 4: nessuna economia occidentale a libero mercato come Hong Kong raggiunge le stesse performances. E' con una specie di orgoglio patriottico che il South China Morning Post annuncia che anche quest'anno i dipendenti delle banche e delle finanziarie di Hong Kong riceveranno bonus equivalenti a sei mesi di salario, come minimo. "Le banche occidentali possono avere giorni molto buoni e giorni molto cattivi", spiega un manager locale. "Se lavori qui per una banca asiatica non è una grande sorpresa ricevere bonus ogni anno".
Il dibattito sull'identità di Hong Kong sollevato dalla morte di Sir Run Run, è in realtà fuori luogo. Hong Kong non è più un luogo dal tempo contingentato, per quanto sia sempre la Cina a determinarlo. Ha sviluppato le sue diversità e il suo senso d'appartenenza.
La risposta più comune, quando si chiede a un abitate di Hong Kong come si distingua da ln visitatore della Cina continentale (ne sono venuti in vacanza o a cercare una casa 50 milioni solo nel 2013) è: "loro portano le calze bianche e ti chiedono quanto guadagni". Poi, dando un valore concreto alla diversità estetica, aggiungono lo Stato di diritto: che qui esiste ed è rispettato, e oltre frontiera no.
Il chief executive
Un esempio del senso di appartenenza degli abitanti di Hong Kong è stata la rivolta scoppiata due anni fa contro il tentativo di riforma dell' "Educazione nazionale". Su istruzione delle autorità del continente, nel tentativo di unificare l'identità nazionale cinese, quelle scolastiche di Hong Kong avevano tentato d'introdurre un corso di storia obbligatorio nel quale si glorificava il ruolo del Partito comunista. Contro questo "lavaggio de cervello dei nostri figli" furono organizzate manifestazioni e scioperi della fame. Alla fine il programma è stato sospeso, lasciandone l'applicazione alle scelte di ogni singola scuola.
A Hong Kong è difficile trovare rivoluzionari e nazionalisti. A nessuno viene in mente di rivendicare l'indipendenza, come a Taiwan. Ma l'autonomia politica che qualche anno fa interessava pochi hongkonghesi, oggi è una questione fondamentale per definire il futuro comune. Il chief executive, il primo ministro, viene scelto da Pechino tra gli uomini d'affari della città; come il 50% dei deputati del Legislative Council. Gli accordi prevedono tuttavia che entro il 2017 sia il chief executive che l'altra metà del parlamento siano scelti a suffragio universale dagli hongkonghesi. Pechino conserva un diritto di veto. Ma se rinviasse o ignorasse quella scadenza, commetterebbe un serio errore di valutazione. Per quanto i vantaggi economici siano notevoli, Hong Kong ha maturato una convinzione: non è uscita 17 anni fa dal controllo inglese per diventare un sottoprodotto della Cina.
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