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Questo articolo è stato pubblicato il 04 febbraio 2014 alle ore 11:42.

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Da «sentinella» in una piazza di droga a capo del mercato della cocaina e dell'hashish nella provincia nord di Napoli: la fulminante ascesa di Mariano Riccio, 24enne con i galloni di comandante della neocamorra di Scampia, sta tutta nel matrimonio con la figlia del boss Cesare Pagano, «malacarne» di Secondigliano a ventiquattro carati.

Riccio è stato catturato all'alba di oggi dagli agenti della Mobile partenopea e dello Sco in una villetta a Qualiano, dove s'era rifugiato con la compagna e la figlioletta. Lo hanno tradito le intercettazioni telefoniche e ambientali nell'«inner circle» malavitoso in cui è nato e cresciuto, e la necessità di coordinare l'attività di spaccio in prima persona perché, ormai, arresti e condanne avevano di fatto azzerato il suo pur agguerrito gruppo.

Negli ultimi mesi, aveva iniziato a usare il vecchio ma efficiente sistema dei «pizzini» per comunicare con affiliati e parenti, ai quali aveva vietato l'uso dei cellulari. Aveva anche ridotto al minimo le trasferte nel basso Lazio e in Calabria, dove i «sismografi» dell'Antimafia lo avevano segnalato tra la primavera e l'estate scorsa. Altre presenze erano state localizzate nel Cilento dove, secondo alcune informative delle forze dell'ordine, Riccio amava trascorrere le vacanze con i parenti. Che il giovane capo degli «scissionisti» si muovesse con una certa velocità, sul territorio di sua competenza criminale, gli investigatori lo hanno sempre saputo. Tant'è che la polizia, in un paio di occasioni, era convinta di averlo messo in trappola. Gli agenti, prima del blitz che ha coronato tre anni di ricerche, avevano puntato l'attenzione su alcune villette tra Melito e Mugnano, dove – con tutta probabilità – Riccio aveva trovato rifugio a ridosso del processo che lo ha portato alla condanna a sedici anni di carcere per associazione mafiosa e droga.

Covi poi rivelatisi «freddi» perché abbandonati, in fretta e furia, dal giovane super-latitante. L'ultima volta che lo avevano visto dal vivo, gli investigatori, era stato l'8 luglio 2010, quando la lepre da acchiappare non era lui, ma suo suocero: Cesare Pagano. Camorrista vecchio stampo, conosciuto all'anagrafe della malavita col soprannome di Cesare «Paciotti», a causa della smodata passione per il brand moda, «Cesarino» è stato per anni uno dei più fedeli collaboratori del padrino Paolo Di Lauro, un altro pezzo da novanta nello scacchiere mafioso campano. Importatore, insieme a suo cognato Raffaele Amato, di tonnellate di cocaina, eroina, marijuana e hashish dalla Spagna e dall'Olanda e dalla Turchia. Un'attività che lo ha proiettato a livelli di ricchezza incalcolabili. Di «Paciotti», racconta il pentito Maurizio Prestieri, gira una leggenda tra i rioni senza nome e i palazzi fatiscenti di Secondigliano e Scampia che fa raccapriccio. Durante la faida contro le «truppe» di Di Lauro, che provocò una settantina di morti tra il 2004 e il 2005, Cesare Pagano fece rapire e torturare un rivale perché rivelasse i piani del nemico. Ottenute le informazioni, lo fece decapitare e, con la testa mozzata tra i piedi, fu visto dagli affiliati mentre nel giardino di una villetta inscenava palleggi e dribbling. Se sia vero o no, certo è che Pagano è stato tra i registi dell'orrore di una guerra di camorra che finì sulle prime pagine della stampa internazionale. Il giorno della sua cattura, Riccio era con lui. Poco più che ventenne, faceva da «ufficiale di collegamento» tra il papà della fidanzata e l'esercito di gregari. Lui che, in un'inchiesta del 2008, era segnalato come semplice «palo» nella piazza di spaccio di Via Cupa Sant'Antimo aveva fatto carriera.

Non aveva armi in casa, Riccio, quando è stato ammanettato. Non ha opposto resistenza, limitandosi a maledire in silenzio l'inutile impianto di videosorveglianza che aveva fatto installare per evitare sortite di killer e forze dell'ordine. L'esiguità della somma rivenuta nel nascondiglio (circa 6500 euro) fa supporre agli investigatori che la rete di protezioni e complicità cui ha potuto appoggiarsi in questi anni gli assicurava costante e robusto sostentamento finanziario. D'altronde, i soldi erano l'ultimo dei suoi problemi: la sua gang controlla lo smercio di stupefacenti a Melito e Secondigliano. Si stava allargando fino a Marano, feudo della famiglia Nuvoletta, storica cosca alleata dei Corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Voleva imitare il successo criminale di suo suocero, probabilmente, Mariano. Ma i tempi della giustizia, una volta tanto, sono stati assai più veloci del solito.

Riccio era l'ultimo dei «wanted», i baby-boss per i quali, nell'ottobre 2012, carabinieri e polizia diffusero foto e identikit per agevolare le segnalazioni da parte dei cittadini. Prima di lui, erano caduti nella rete Mariano Abete (21 anni), Rosario Guarino (29) e Antonio Mennetta (27). Con la sua cattura, il cerchio è (quasi) chiuso. All'appello manca solo Marco Di Lauro, figlio 33enne di Paolo. Il rampollo che vuole restaurare la dittatura di sangue e violenza del suo clan su Napoli e provincia.

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