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Questo articolo è stato pubblicato il 07 febbraio 2014 alle ore 15:55.

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Giuseppe Setola (Ansa)Giuseppe Setola (Ansa)

Non è purtroppo solo una leggenda di camorra quella che vuole i Casalesi assetati del sangue dei pm e degli investigatori che li hanno letteralmente ridotti a brandelli con arresti, confische e condanne.

L'ultimo a lanciare la sfida è stato Giuseppe Setola, il killer della strage di Castelvolturno: se l'è presa con il magistrato che lo ha spedito all'ergastolo, Cesare Sirignano. Rinfacciandogli – lui che ha chissà quanti morti sulla coscienza – di «voler sterminare» giudiziariamente la sua famiglia e i suoi amici. Per tre volte ha preso la parola, l'assassino casalese, e per tre volte in un'aula ammutolita si è rivolto al sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia per fargli capire che prima o poi saranno fatti i conti. In un'altra occasione, Setola gli aveva giurato che questa «storia comunque finisce».

Intercettazioni, informazioni confidenziali e verbali dei collaboratori di giustizia raccontano un universo criminale di violenza e lucida follia in movimento. Dove può capitare pure che un pubblico ministero apprenda, in videoconferenza, durante un pubblico processo, di essere vivo per una pura coincidenza. È successo ad Alessandro Milita durante l'interrogatorio del killer Francesco Della Corte.

«Tornando a casa con Carlo Verde (soggetto sospettato di legami con il boss delle ecomafie Cipriano Chianese, ndr) mi fu chiesto da quest'ultimo di eliminare un magistrato della Procura di Napoli che stava facendo delle indagini sui conti dell'avvocato Chianese. Verde mi disse che Chianese era disponibile a dare anche 500.000 euro per compiere questo omicidio e che il magistrato era il coordinatore della Dda di Napoli. Io dissi a Verde che 500.000 euro non sarebbero bastati, ma serviva un milione di euro. Verde mi disse che avrebbe parlato con Cipriano Chianese, il quale sicuramente avrebbe accettato». Quel magistrato era lo stesso che lo stava ascoltando, in aula.

E se è forse solo «colore» il ricordo di quell'altro pentito che descrisse una riunione di vertice della camorra casertana in cui gli affiliati «si rammaricavano» del fatto che i «siciliani avevano avuto il coraggio di uccidere Borsellino e Falcone, mentre il clan dei Casalesi non aveva mai preso provvedimenti nei riguardi dei magistrati», non è affatto un mistero che più soggetti, un tempo appartenenti ai gruppi di fuoco della malavita, abbiano fatto riferimento a progetti di attentati ed esecuzioni nei confronti di inquirenti e uomini delle forze dell'ordine. Nicola Cangiano, ad esempio, un tempo affiliato al clan Schiavone, ha parlato di «propositi omicidiari» della fazione stragista del gruppo Bidognetti «nei confronti del dott. Sirignano, del dott. Maresca, del colonnello Fabio Cagnazzo, del dott. Roberti Franco ma anche genericamente nei confronti di qualunque pubblico ministero che in quel periodo lo colpiva come ad esempio il dott. Milita». Aggiungendo che spesso Setola si «rammaricava di non incontrare qualche vostra autovettura così almeno avrebbe dato un altro segnale».

Pochi giorni dopo questa deposizione, in un appartamento disabitato a San Cipriano d'Aversa sono stati scoperti e sequestrati tre kalashnikov, un fucile a pompa ed un fucile mitragliatore con proiettili in grado di perforare auto corazzate. Una combinazione? All'ex capo della Dia di Napoli Adolfo Grauso venne assegnata una blindata dopo che i suoi investigatori scoprirono che i Casalesi volevano addirittura far saltare in aria il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, ancor oggi protetto da soldati e camionette dell'Esercito.
Un altro camorrista reoconfesso, Roberto Vargas, è andato addirittura oltre. Spiegando a incredibili inquirenti che, pur di eliminare gli odiati pubblici ministeri della Dda, i Casalesi si sarebbero rivolti ai terroristi islamici. E, a fare da mediatore, sarebbe stato Nicola Schiavone, figlio del padrino Sandokan.

«Mi disse che avremmo potuto colpire il pool di magistrati, per primo Cafiero de Raho e poi a seguire chi del pool si occupava della camorra casalese. L'azione sarebbe stata portata a termine dai terroristi, mentre noi avremmo fornito gli appoggi logistici. Secondo quanto diceva Schiavone, i terroristi erano stati già addestrati a colpire in quanto avevano preso parte a fatti di sangue all'estero per l'organizzazione terroristica. Siccome i terroristi avevano avuto alcuni problemi, si erano alleati con Nicola al fine di ottenere dei rifugi sicuri nell'agro aversano». Aggiungendo subito dopo: «Schiavone mi disse di aver incontrato questi terroristi e che sarei dovuto essere io il contatto diretto con queste persone, mentre lui si sarebbe trasferito a Modena, per sviare le indagini nei suoi confronti. Poi sono stato arrestato e quindi non se ne è fatto più nulla».

Un altro pentito, Salvatore Venosa, di suo ci ha messo che «Carmine Schiavone era in possesso di missili terra-aria» da puntare verso le blindate dei magistrati napoletani che gli stavano confiscando tutto il suo impero criminale. Il bazooka volevano invece utilizzarlo gli affiliati alle cosche di Acerra (provincia nord di Napoli, nel cuore della Terra dei fuochi) per ammazzare il pm Vincenzo D'Onofrio a bordo della sua Bmw grigia. Il boss che voleva spedirlo all'altro mondo era Giuseppe Di Iorio. Al magistrato, il padrino contestava un «particolare accanimento, da distruzione di massa» verso la sua organizzazione criminale. «Ognuno di noi – ha raccontato il collaboratore di giustizia Pasquale Di Fiore - aveva episodi avvenuti in udienza nei quali D'Onofrio aveva dimostrato durezza». Il commando doveva entrare in azione poco prima della rampa di accesso all'autostrada che collega i paesi vesuviani alla Procura e al Tribunale. Una scena da film. Dell'orrore.

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