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Questo articolo è stato pubblicato il 11 febbraio 2014 alle ore 06:42.

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ROMA
Il premier Enrico Letta «non ha mai espresso contrarietà all'ipotesi di una bad bank», hanno puntualizzato ieri mattina fonti della Presidenza del Consiglio in risposta a un articolo del Financial Times che ritraeva un Esecutivo contrario a questa eventualità per timore delle ricadute negative sul rating sovrano. Nel pomeriggio, il ministero dell'Economia di Fabrizio Saccomanni ha precisato di non ritenere «necessario l'impiego di risorse pubbliche nazionali o comunitarie», pur valutando positivamente «tutte le iniziative che gli operatori del credito e della finanza stanno mettendo in campo per alleggerire il proprio patrimonio dai prestiti deteriorati, liberando capitale da impiegare a sostegno di imprese e consumi».
Il doppio intervento, prima di Palazzo Chigi e poi del Mef, ha un doppio obiettivo. Letta lascia aperta la porta alla vasta gamma di interventi possibili per risolvere strutturalmente il problema delle sofferenze che gravano sui bilanci delle banche italiane, compresa la bad bank centralizzata con fondi statali; Saccomanni frena le aspettative dei mercati partiti a razzo sulla creazione in Italia di un istituto sullo stile dell'irlandese NAMA e della spagnola Sareb. La Banca d'Italia, secondo fonti bene informate, non punta sulla bad bank centralizzata ma piuttosto sulle cartolarizzazioni come strumento per liberare i bilanci dai crediti in sofferenza.
Il tema delle sofferenze è incandescente e l'Italia non può permettersi improvvisazioni o passi falsi: la gestione della vicenda del Montepaschi, con stop-and-go che hanno frastornato gli addetti ai lavori, ha danneggiato l'immagine e la reputazione dell'Italia. Solo lo scorso dicembre l'Fmi aveva promosso le banche italiane, «in grado di assorbire il costesto attuale di debolezza economica e uno scenario di protratta crescita a rilento»: a differenza di quelle irlandesi e spagnole, non sono state travolte dalle bolle speculative immobiliari e l'Italia, a differenza di Irlanda e Spagna, non ha chiesto aiuti esterni (Efsf-Esm) per ricapitalizzare il sistema bancario. Sulle banche italiane, tuttavia, ora sono accesi i riflettori dei mercati per colpa delle dimensioni delle sofferenze e della mancanza di soluzioni in alternativa agli aumenti di capitale. Alberto Gallo, strategist per il fixed income di RBS, sostiene che l'Italia deve fare molto di più: l'operazione annunciata da IntesaSan Paolo e la possibilità che UniCredit e Mediobanca si muovano in questa direzione secondo Gallo «sono positive ma non bastano a rafforzare l'intero sistema perchè le banche italiane di media e piccola dimensione rappresentano il 70% dei prestiti bancari e sono sottocapitalizzate, hanno una bassa redditività e le loro sofferenze continuano ad aumentare».
L'impatto sul rating sovrano di una bad bank finanziata con risorse pubbliche resta un punto interrogativo. Il diavolo, come al solito, sta nei dettagli, come affermano Giacomo Barisone, analista per il rating sovrano italiano di DBRS, e Peter Burbank, analista per il rating delle banche italiane di DBRS: «Se l'Italia dovesse creare una bad bank di sistema, molti aspetti dovranno essere chiariti. Viste le dimensioni del problema e il numero d'istituzioni bancarie, è fondamentale che qualsiasi iniziativa di questo tipo venga condotta con la dovuta pianificazione, nella massima trasparenza rispetto al tipo di asset coinvolti, il suo inquadramento giuridico, la sua struttura definitiva. Può avere un impatto positivo sul rischio-Paese perchè rafforzerebbe il sistema bancario favorendo una migliore trasmissione del credito all'economia reale, ma tutto dipende da come viene fatta». DBRS analizzerà il rating dell'Italia come programmato in calendario l'11 aprile. «Terremo conto di vari fattori, tra i quali la solidità del sistema bancario, l'evoluzione dello scenario macroeconomico e l'attuale quadro politico che rende difficile l'implementazione del programma di riforme».
isabella.bufacchi@ilsole24ore.com
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