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Questo articolo è stato pubblicato il 18 febbraio 2014 alle ore 06:43.

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Qualcuno l'ha detto e qualcun altro lo avrà pensato. Ma attribuire esclusivamente a un "effetto Renzi" il clamoroso flop di partecipazione alle primarie del Pd per scegliere i segretari regionali sarebbe, oltre che forzato, fazioso. Certo, e lo ha sottolineato Stefano Fassina, nella disaffezione verso i gazebo ha anche giocato il modo brusco, se non brutale, con il quale la direzione del Pd (non soltanto i renziani) hanno posto fine al governo guidato da Enrico Letta. Chi frequenta i circoli del Pd ha chiaro che nei giorni di vigilia di queste primarie, i sostenitori (a suo tempo) di Cuperlo e del sindaco di Firenze si ritrovavano nel lamentare la disinvoltura usata nel liquidare chi, prima di diventare primo ministro, era stato il vicesegretario del partito.
Ma fin qui siamo a un malessere che potrebbe essere anche soltanto occasionale. Invece l'insuccesso del voto per le primarie (che riguardavano cariche di partito) è dovuto a qualcosa che più che contingente è strutturale. Ieri sull'Unità Claudio Sardo parlava di "gabbie" che lo stesso Pd si è costruito, le quali avrebbero ridotto le primarie da «un'opportunità democratica a una condanna». C'è insomma una domanda che militanti ed elettori del Pd hanno il diritto di farsi e porre ai propri dirigenti: ha senso che a scegliere i dirigenti di un partito siano, oltre agli iscritti, gli elettori? Se, come dicono i suoi sostenitori, in questo modo si protegge il partito dall'influenza dell'apparato, dall'altro lo si espone al rischio che i suoi dirigenti siano il frutto di una sorta di circolazione "extracorporea", costituita cioè dal voto di elettori che potrebbero anche essere, in teoria, del tutto estranei al partito, visto che le primarie devono essere aperte.
La questione primarie riguarda solo incidentalmente il ruolo di Renzi. Il quale è stato scelto come segretario anche dagli iscritti ed è stato incaricato di formare il Governo dal capo dello Stato. Resta però una domanda: il ricorso più o meno permanente alle primarie giova o meno al Pd? In un bel saggio (Il libro nero della società civile), Michele Prospero ha denunciato il fatto che «la metafisica delle primarie le esalta come un bene indisponibile e resiste alla dura smentita dei fatti che per gli ideologi sono sempre irrilevanti». E si ricorda come l'essere passati dalle primarie non salvò Prodi dalle insidie della sua maggioranza e non consentì a Bersani di trovarne una sufficiente nel responso delle politiche vere. Quel che è difficilmente smentibile e che la "retorica" delle primarie abbia finito per mettere in crisi le primarie stesse. Le quali sono uno strumento efficace di democrazia per ridurre i danni di sistemi elettorali che non consentono la scelta dei candidati, ma sono prevalentemente occasione di confusione se usate per scegliere i dirigenti di partito. L'obiezione è che lo statuto del Pd prevede che si faccia così. Ma gli statuti si possono cambiare. Nei congressi. I quali però non si svolgono da tempo in quanto sono stati sostituiti (o meglio aggirati) dalle primarie.
Conclusione: Renzi è impegnato a fondo nel costruire il governo delle riforme. La sua tenacia è un buon viatico. Ma, visto il suo doppio incarico, dovrà occuparsi anche del partito e della sua organizzazione interna, la quale non può vivere di sole primarie. O, peggio, di retorica delle primarie.
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