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Questo articolo è stato pubblicato il 22 febbraio 2014 alle ore 08:16.

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«Piove, governo ladro!». Niente forse più dei modi di dire e dei proverbi esprime, sia pur grossolanamente, un costume sedimentato con il tempo nella vita di un popolo.
Quale, in questo caso?


Il bisogno, davanti ad avversità il cui controllo ci sfugge, di identificare il colpevole per scaricarvi la responsabilità (è la soluzione, antica quanto l'uomo, del capro espiatorio), ma soprattutto per rimuovere l'evidenza che della vita noi non siamo i padroni. Per disattivare l'allarme della nostra precarietà.
Ogni giorno i mass media fanno rimbalzare da un capo all'altro del mondo immagini drammatiche di alluvioni, trombe d'aria, nevicate rovinose, tornado, tifoni... Il bollettino di guerra delle calamità naturali sembra registrare una preoccupante accelerazione. Non è possibile non rimanere sgomenti di fronte a queste sciagure che seminano morte. Perché accadono? È la vendetta della terra contro il comportamento dissennato dell'uomo nei suoi confronti? Il brusco e amaro risveglio dell'uomo postmoderno dal delirio di onnipotenza tecnologica a cui si era abbandonato?
Abbiamo letto e continuiamo a leggere approfonditi interventi di studiosi ed esperti della materia. E anch'io in altre occasioni ne ho scritto.
La Chiesa, nei suoi livelli più autorevoli, non lascia mancare il proprio giudizio chiaro e a volte anche severo. Papa Francesco, parlando di rispetto della creazione e di custodia dell'ambiente, ha più volte alzato la voce contro gli idoli del profitto e del consumo. E le pagine della Caritas in veritate di Benedetto XVI dedicate a questi temi sono una miniera di indicazioni acute e pertinenti anche se, purtroppo, dai più ancora ignorate o ingiustamente sottovalutate.
Comunque, puntualmente, insieme ai grandi disastri accade anche un miracolo. Penso ai germogli di vita buona che tenacemente spuntano dalla distruzione. Penso alla gara di solidarietà tra la gente che ogni volta si rinnova, che abbatte i muri di individualismo spesso innalzati dall'uomo del nostro tempo con una forza ancora maggiore delle acque che hanno spazzato via uomini e case. Un costume che non tramonta né nel tempo né nello spazio, tanto è radicato nella vita degli uomini e dei popoli, segno irriducibile di un bene che resiste anche dove sembra esserci il dominio del male. Gemme di amicizia civica sui rami apparentemente secchi della nostra convivenza sociale.
Lungi dallo spegnere questo costume solidale la fede lo alimenta. Ne bastano qui due esempi tratti l'uno dalla vita di ieri e l'altro da quella di oggi.
Qualche giorno fa una delle reti televisive ha riproposto il film Il ritorno di don Camillo, con le indimenticabili scene dell'alluvione del Polesine del 1951. «Le acque escono tumultuose dal letto dei fiumi e tutto travolgono – dice don Camillo alla sua gente –. Ma un giorno esse ritorneranno, placate, nel loro alveo e ritornerà a splendere il sole. E se alla fine voi avrete perso ogni cosa, sarete ancora ricchi se non avrete perso la fede».
E il Cardinal Tagle, visitando le popolazioni delle Filippine colpite dal terribile tifone del novembre scorso, ha affermato: «Sto vedendo un'ondata di amore che dilaga dappertutto. E dove c'è l'amore, c'è Dio. Questo momento di dolore è anche un momento sacro».
Voglio rilanciare anche questa volta alcune ipotesi di lavoro che possano stimolare ulteriori approfondimenti. Anzitutto un leitmotiv caro alla dottrina sociale della Chiesa: l'uomo è "abitante" e non "padrone" del creato. Egli, di fronte alla natura e alla sua violenza, non è né succube, né onnipotente. A trovare il giusto equilibrio tra queste posizioni ci aiuta un'affermazione di Papa Francesco all'Angelus dello scorso 17 novembre: «Di fronte alle calamità naturali Gesù ci libera dal fatalismo e da false visioni apocalittiche». Come imparare a convivere con la nostra scomoda e affascinante condizione di uomini, cioè con il paradosso della nostra piccolezza e della nostra grandezza?
Il cardinale Angelo Scola è Arcivescovo di Milano
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