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Questo articolo è stato pubblicato il 28 febbraio 2014 alle ore 13:06.
L'ultima modifica è del 28 febbraio 2014 alle ore 13:09.

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Harvard sbarca a Roma con lo zampino di un ricercatore italiano in odor di Nobel. La prima università del mondo per storia e risultati crea una Fondazione con l'ateneo di Tor Vergata. Obiettivo: trasferire anche da noi il metodo innovativo di ricerca contro il cancro sperimentato con successo da anni nei suoi laboratori. Ma anche offrire servizi di alta biotecnologia. Fino a 500 i ricercatori che a regime potrebbero essere impiegati nelle sedi della Capitale e di Boston. E guai a parlare di fuga dei cervelli: qui si tratta di «scambio», precisano i promotori dell'iniziativa. Come si addice a un pianeta in cui i confini si stanno sgretolando.

I protagonisti
Il nome della Fondazione, presentata oggi a Roma, è Hbt. Un acronimo dal significato doppio: da un lato sta per Hope to Beat Tumorigenesis, dall'altro richiama le iniziali delle istituzioni coinvolte. Si parte dalla «H» di Harvard Medical Faculty Physicians al Beth Israel Deaconess Medical Center (Bidmc) di Boston, che impiega oltre 900 medici nei 13 dipartimenti dell'ospedale. Si continua, appunto, con la «B» del Bidmc, centro di cura e insegnamento affiliato alla facoltà di medicina di Harvard e terzo tra gli istituti sanitari a stelle e strisce finanziati dal settore privato. «T» sta naturalmente per Tor Vergata, settima tra le università italiane nel ranking mondiale Qs Top University 2013.

Lo scambio di cervelli
Gli scopi del progetto, illustrato nel corso del workshop "La medicina di domani, oggi", sono trasferire l'innovazione nella pratica clinica e favorire lo scambio di ricercatori. In cantiere c'è lo sviluppo di un programma di training che preveda la gestione congiunta tra Boston e Roma. «All'inizio saranno selezionati cinque giovani con un curriculum adeguato da una commissione mista di docenti italiani e americani», spiega il rettore di Tor Vergata Giuseppe Novelli, che è anche un genetista. «A regime prevediamo di coinvolgere circa 500 giovani per tre anni, ma questo dipenderà anche dai progetti che riusciremo a finanziare e dai partner che ci aiuteranno». Una boccata d'ossigeno per la nostra ricerca asfittica e sottofinanziata.

Il metodo
Dal punto di vista scientifico, l'iniziativa scommette sulla strategia portata avanti da anni dal direttore del Bidmc Cancer Center di Boston, Pier Paolo Pandolfi, la vera anima del progetto. Un curriculum straordinario, che dagli studi a Perugia lo vede prima a Londra, poi al Memorial Sloan Kettering Cancer Center di Manhattan e infine nel "tempio" della ricerca internazionale: Harvard, appunto. Nato a Roma cinquant'anni fa, segnato giovanissimo dalla morte per cancro del padre e della madre, Pandolfi porta in Italia la strategia della "staffetta topo-uomo" sperimentata a partire dalla fine degli anni Novanta, che ha permesso al suo gruppo di ricerca di sconfiggere la leucemia acuta promielocitica.
A parole il sistema è semplice: si parte da un gene la cui mutazione ha a che vedere con la genesi del tumore, lo si risintetizza e si inserisce in un topo. Poi si testano alcuni farmaci già autorizzati finché non si individua quello che ferma il cancro nel topo e dunque anche nel paziente. Se il tumore sviluppa resistenza, come accade spesso, si ricomincia da capo. Fino a sviluppare il cocktail di medicinali "perfetto", a misura di ogni malato.

I vantaggi
Il primo beneficio di un metodo simile è la velocità. «Nel topo che condivide con l'essere umano il 95% del suo patrimonio genetico - spiega Pandolfi - un tumore che dà sintomi dopo dieci anni in pochi mesi è ben sviluppato». Il secondo vantaggio è la possibilità di provare un gran numero di sostanze nuove ma pure vecchie: molecole già usate per altre malattie, ad esempio, o prodotti che non hanno dato i risultati sperati ma che hanno superato le prove tossicologiche iniziali. È questo il modello che Pandolfi riporterà in Italia, con una curiosa triangolazione che però chiude il cerchio. Lui lo ha battezzato "co-clinical project": testare un farmaco nel topo e nell'uomo allo stesso tempo. Integrare i dati dei trial simultanei. Correre verso il traguardo di una cura possibile con la stessa rapidità con cui il cancro mette in moto la moltiplicazione delle cellule. «Questo progetto è un primo inizio - afferma Pandolfi - e mi fa piacere che inizi con un nuovo Governo e con aria nuova. Penso che l'Italia potrà tornare a essere un Paese importante per la ricerca, nonostante le difficoltà».

Gli sviluppi possibili
La Fondazione non si limiterà a esplorare le possibilità del "co-clinical project" ma punterà anche allo sviluppo di nuove terapie mirate e all'uso di tecniche innovative di sequenziamento del genoma nella diagnostica clinica quotidiana. L'Italia condividerà il know how di ricerca e di sviluppo biotech di Harvard, strappando questa chance alla Germania, all'Olanda e alla Svizzera che pure avevano avanzato offerte allettanti. «Gli americani - osserva Novelli - impareranno quello in cui siamo bravi: creatività, spirito di innovazione e preparazione di base che solo le nostre università forniscono. Da loro vorremmo prendere la metodologia con cui lavorano e la perizia nel coinvolgere i privati e l'industria nella ricerca».

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