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Questo articolo è stato pubblicato il 12 marzo 2014 alle ore 12:26.
L'ultima modifica è del 12 marzo 2014 alle ore 14:00.

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La folla in piazza a Istanbul per i funerali di Berkay Elvan (Reuters)La folla in piazza a Istanbul per i funerali di Berkay Elvan (Reuters)

Un fiume di persone, decine di migliaia, provenienti da tutta la megalopoli del Bosforo, si è diretto verso il quartiere popolare di Istanbul di Okmeydani dove abita la famiglia
del Berkay Elvan, il ragazzo 15enne gravemente ferito da un candelotto lacrimogeno in giugno durante una manifestazione di Gezi Park mentre si recava a comperare il pane per la sua famiglia, morto ieri dopo nove mesi di coma.

La folla grida «Berkin sei immortale» e slogan ostili contro il premier Recep Tayyip Erdogan. Si teme che il funerale di Elvan, appertenente alla setta degli aleviti, una minoranza religiosa messa sotto pressione dal governo Erdogan che ha sostenuto politiche sociali pro-sunniti, possa degenerare in scontri con la polizia. Le forze dell'ordine, infatti, stanno lanciando gas lacrimogeni a Kizilay, nel centro di Ankara, contro diverse migliaia di persone e atre manifestazioni di proteste sono previste questo pomeriggio in tutto il Paese.

La crisi politica, il più grave scandalo per corruzione degli ultimi anni e il coincidente annuncio del tapering (meno dieci miliardi di dollari di acquisti di bond al mese) annunciati a dicembre dalla Federal Reserve sotto la guida di Janet Yallen, stanno minando alle fondamenta il miracolo economico sul Bosforo.

Un tumultuso processo di crescita che dura da dieci anni e che ha quadruplicato il Pil pro capite dal 2002 portandolo da 2.500 a 10mila dollari. La Turchia, che cresce da un decennio a ritmi cinesi, è diventata la 16° economia al mondo ed entro il 2020 vuole raggiungere il decimo posto. Ne ha tutte le potenzialità: la dimensione di 76 milioni di abitanti in maggioranza giovani, la forza di potenza regionale, le alleanze internazionali che ne fanno il baluardo dell'Occidente prima contro l'Unione sovietica e oggi contro l'estremismo islamista.

Il tapering della Fed vuol dire meno denaro nel sistema finanziario e quindi meno fondi per le economie emergenti. La Turchia è stata una delle maggiori beneficiarie dei programmi di stimolo Usa.
La lira turca, acuto sismografo del sentimento dei mercati, è scesa al suo minimo storico, proprio dopo che la Federal Reserve Usa ha annunciato il 17 dicembre 2013 un ammorbidimento della politica monetaria espansiva e mentre il governo di Recep Tayyip Erdogan stava affrontando una delle maggiori crisi legate all'inchiesta per corruzione, strettamente intrecciata alla politica, da quando è al potere, dopo tre mandati consecutivi, dal 2002. Tre ministri si sono dimessi perché sospettati di aver facilitato operazioni di modifiche d'uso di terreni che dovevano essere tutelati.

La situazione politica è molto critica perché nella lotta tra il predicatore islamico Fethullah Gulen e Erdogan, un tempo alleati e ora nemici, la Turchia rischia molto perché il paese si affida ai flussi di denaro stranieri per finanziare il suo ampio deficit delle partite correnti, oggi al 7,5% del Pil. Basta un cambio di umore dei fondi stranieri e i rendimenti dei bond, oggi al 10%, possono schizzare alle stelle facendo alzare il costo del debito.
Il crollo della lira ha spinto prima la Banca centrale turca ad effettuare un massiccio intervento di sostegno alla moneta vendendo 400 milioni di dollari per calmierare i prezzi. Il 10 giugno 2013 la stessa banca aveva venduto 650 milioni di dollari per fermare il calo della lira dopo le proteste di Gezi Park. Poi ha alzato i tassi. Ma sono solo palliativi quando c'è incertezza politica e pericolo di fuga di capitali verso lidi più remunerativi e sicuri. La volatilità resta elevata in vista delle amministrative di marzo, test molto importante della reale popolarità di Erdogan che voleva correre per diventare presidente della Repubblica nelle elezioni di agosto.

Gli stessi risparmiatori turchi hanno aumentato di 20 miliardi di dollari i depositi in valuta estera nella seconda metà dello scorso anno vendendo lire, intimoriti degli effetti dello scandalo per corruzione sul Bosforo sulla tenuta della moneta. I depositi bancari turchi detenuti in conti in valuta estera, sono infatti saliti a 119,3 miliardi di dollari, il 27 dicembre 2013, secondo i dati della banca centrale turca. La lira ha toccato il 6 gennaio il minimo storico sul dollaro di 2,1948 lire, per poi risalire. Una dêblacle per un paese che importa tutta l'energia necessaria in dollari e che paga una bolletta energetica salata.
Ma ora la Turchia si è messa, con la crisi politica, in prima fila per subìre il cambio di rotta dei flussi finanziari che colpirà tutti i mercati emergenti. Una mossa pericolosa ed è inutile gridare al complotto internazionale: i problemi sono tutti interni.

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