Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 15 marzo 2014 alle ore 10:08.
L'ultima modifica è del 16 marzo 2014 alle ore 17:56.

My24

La Serbia va al voto per rinnovare il Parlamento e tra gli elettori è fortissima la tentazione di affidare il governo, e il futuro del Paese, all'uomo forte della politica di Belgrado: il leader del Partito del progresso, Aleksandar Vucic. Gli ultimi sondaggi dicono che raggiungerà il 44% dei consensi - il doppio di quanto ottenuto nel 2012 - e che potrebbe riuscire a ottenere la maggioranza assoluta in Parlamento.

«Abbiamo bisogno di una vittoria netta. Vogliamo far ripartire l'economia, creare posti di lavoro, dobbiamo realizzare finalmente le profonde riforme che altri non hanno voluto fare, dobbiamo lottare con decisione contro la corruzione. Ma non potremo fare niente di tutto questo, non potremo fare niente per i cittadini serbi se non avremo un mandato forte. Dobbiamo raggiungere il 50% dei voti», ripete Vucic, nell'ultimo comizio della campagna elettorale.

I sondaggi per ora gli danno ragione. Gli altri partiti sembrano destinati ad avere un ruolo secondario: i socialisti del premier uscente Ivica Dacic sono dati al 13%; i democratici, prima forza dell'opposizione, guidati da Dragan Djilas, potrebbero ottenere il 10%; il Nuovo partito democratico dell'ex presidente Boris Tadic, uscito in polemica dai democratici, è accreditato del 9 per cento. Dovrebbero superare lo sbarramento del 5%, necessario a entrare in Parlamento, anche il Partito democratico della Serbia, schieramento conservatore e nazionalista dell'ex premier Vojislav Kostunica con il 6,5%, e il Partito liberaldemocratico dato al 5,5 per cento.

La svolta di Vucic
Il grande favorito Vucic, 44 anni, è cresciuto al fianco di leader politici come Vojislav Seselj e Slobodan Milosevic, colpevoli delle atrocità delle guerre balcaniche degli anni Novanta. Vent'anni fa minacciava la Croazia e la Bosnia dicendo che il suo Paese avrebbe ucciso cento musulmani per ogni serbo ucciso nel conflitto. Oggi ha rinnegato il suo passato mettendo da parte il nazionalismo e gli attacchi all'Occidente per dichiararsi a favore dell'Unione europea e per riallacciare il dialogo con il Fondo monetario e la Banca mondiale. Per siglare accordi e negoziare prestiti con gli Emirati arabi. È diventato - così si autodefinisce - il maggiore sostenitore del libero mercato, della lotta alla corruzione, della privatizzazione delle imprese di Stato, della necessità di cambiare. È stato lui, vicepremier nel governo uscente, a spingere per andare al voto con due anni di anticipo: «Serve una svolta nell'azione del governo, siamo fermi, così non possiamo continuare», ha affermato liquidando l'esperienza di coalizione con i socialisti di Dacic.
E i mercati finanziari si attendono molto da lui: «Per gli investitori una maggioranza solida nelle mani di Vucic sarebbe molto positiva per l'economia della Serbia. Il nuovo governo non potrà più lamentarsi per le resistenze degli altri partiti della coalizione nelle riforme. C'è molto da fare», spiega Martin Marinov, di Raiffeisen Kapitalanlage GmbH.
Ma molti a Belgrado temono che le elezioni di domani aprano la strada a una nuova deriva autoritaria. «Ci fa paura un governo formato da un solo partito con un capo come Vucic, forte e autoritario. C'è un problema politico. Ma ci sono anche timori per la libertà nel Paese: l'opposizione è spesso ridotta al silenzio dai media», dice Natasa Vuckovic, esponente socialista e presidente della commissione parlamentare per l'integrazione europea.

Elezioni e crisi economica
Il processo di adesione all'Unione, avviato all'inizio dell'anno dai negoziati ufficiali con Bruxelles, non è stato mai messo in discussione dai principali partiti serbi. «Solo una minoranza del Paese non lo vuole e solo il 10% dei parlamentari fanno parte di forze politiche apertamente contrarie a un futuro nell'Unione europea», afferma Michael Davenport, capo della delegazione Ue a Belgrado. La breve campagna elettorale è stata dominata dai temi economici, dalla crisi dell'occupazione, dalle difficoltà delle famiglie. E dall'ancora irrisolta questione del Kosovo.
La guerra e la successiva transizione politica hanno determinato per la Serbia un ritardo di dieci anni nelle riforme rispetto a molti Paesi dell'Europa centrale ed orientale. Inoltre l'economia serba che fino al 2008 cresceva in media del 4% all'anno ha subito pesantemente la crisi economica: la recessione ha ingigantito le difficoltà di un Paese arretrato e del tutto dipendente dalle sorti dell'economia europea. Il Pil quest'anno non dovrebbe aumentare più dell'1%, il sommerso vale il 30% della ricchezza prodotta e la disoccupazione è salita al 25% in un Paese di 7,5 milioni di abitanti nel quale lavorano 1,7 milioni di cittadini, ci sono 1,7 milioni di pensionati e 800mila persone ricevono qualche forma di sussidio pubblico.

«La Serbia ha grande potenzialità, penso all'automotive, al settore alimentare a quello dell'energia, ma dobbiamo cancellare la corruzione e i sussidi di Stato a imprese che per anni hanno agito come Stati dentro lo Stato. Dobbiamo cambiare mentalità, sappiamo cosa fare: nessuno potrà salvare la Serbia se non creeremo un futuro sostenibile attraverso la crescita del settore privato», dice ancora Vucic. «Per il momento sono solo slogan. Nessun partito ha spiegato nel dettaglio il proprio programma economico. È mancata la discussione sui contenuti, sulle misure urgenti. E ancora - sottolinea Ana Trbovic, economista dell'Università di Belgrado - il nostro Pil non ha recuperato i livelli del 1999».

Commenta la notizia

Shopping24

Dai nostri archivi