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Questo articolo è stato pubblicato il 19 marzo 2014 alle ore 11:49.

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Luciano Moggi (Ansa)Luciano Moggi (Ansa)

Le motivazioni della sentenza dello scorso 17 dicembre 2013 con cui i giudici d'Appello di Napoli condannavano, per il reato di associazione per delinquere, Luciano Moggi , Pierluigi Pairetto e Innocenzo Mazzini, sono state depositate ieri, 17 marzo, e mettono la parola fine al più controverso caso che abbia mai investito il mondo dello sport.

Negli inutili dibattiti tra tifosi la frase più frequente è sempre stata: «mancano le prove». Come se tre gradi di giustizia sportiva non fossero sufficienti. Quella giustizia sportiva che la stessa società bianconera si era impegnata a rispettare, come fanno tutte le società che partecipano a un campionato. Senza il rispetto della giustizia sportiva sarebbe il caos.

Su Calciopoli, tuttavia, si è andati avanti: dopo la giustizia sportiva c'è stato il processo di Napoli, con un successivo appello chiuso per l'appunto alla fine dello scorso anno.

E le prove ci sono, eccome. I giudici parlano (o per meglio dire scrivono) dell'esistenza di «molteplici e articolati elementi probatori» sull'esistenza di Calciopoli, aggiungendo che «la figura assolutamente apicale nel sodalizio» di Luciano Moggi «appare certa e inequivocabile». A carico del quale viene riconosciuta «una condotta a dir poco aggressiva» nella vicenda che ha visto l'allora Direttore sportivo della Juventus chiudere nello spogliatoio l'arbitro Gianluca Paparesta, vantandosene poi in una conversazione intercettata e giustificando il gesto «come sanzione per il suo arbitraggio contrario».

Le pagine della sentenza sono tante, più di duecento, e tra le altre cose si legge di come Luciano Moggi riusciva, in riferimento ai designatori arbitrali, «ad imporre proprie decisioni, coinvolgendoli strettamente nella struttura associativa e nel perseguimento della comune illecità finalità». Si parla delleavicenda delle schede telefoniche, si fa riferimento alle intercettazioni, si confermano le condanne di primo grado in relazione alle singole partite contestate come irregolari in quanto condizionate. Già, le partite. In questi anni ho sentito molti amici dire: «non c'è nemmeno una partita, una sola». Ci sono, eccome, basta leggere qualcosa in più dei titoli.

Ma il vero punto non è questo. Il vero punto è che nello sport, fermo restando il diritto di ricorrere contro qualsiasi sentenza, viene un momento in cui le sentenze si rispettano. Punto e stop. Soprattutto se ti chiami Juventus e sei la società più vincente in Italia.

Ben Johnson non grida al mondo che il campione olimpico dei cento metri di Seul è lui, anche se sul campo è arrivato davanti a Carl Lewis. Lance Amstrong ha lasciato i suoi sette Tour de France a chi era arrivato dietro di lui, e molti, molti altri nello sport hanno accettato sentenze avverse. Molti hanno continuato ad allenarsi, a competere in modo onesto e hanno ripreso a vincere cancellando sul campo (qui si, vale la pena di sottolinearlo) gli errori commessi.

Non sono un tifoso della Juventus, ma ho sempre avuto il massimo rispetto per una squadra che fin da bambino seguivo nelle sue avventure internazionali: ricordo i gol di Altafini, visti su una vecchia tv in bianco e nero, i tocchi geniali di Platini, le magie di Del Piero. Non ho gioito quando Magath ha negato alla Vecchia Signora la Coppa Campioni del 1983: sotto le maglie bianconere continuavo a vedere l'azzurro di Zoff, Gentile e Cabrini. Ho pianto nel maggio del 1985, dopo la strage dell'Heysel.

Mi piacerebbe che il calcio tornasse a essere quello di allora: rivali sempre, nemici mai. E soprattutto con la serenità di poter sostenere, senza doversi vergognare, anche chi non porta i tuoi colori. Perché i campioni veri si apprezzano, sempre, al di là della maglia che indossano.

Mi piacerebbe che il presidente della Juventus, alla fine di questo campionato, dicesse finalmente: «Trenta, sul campo e fuori. Chiudiamola qui». Sarebbe il modo più bello per cancellare lo scempio che Moggi e compagni hanno fatto dei colori bianconeri. Colori che per essere gloriosi non hanno bisogno del mancato rispetto di una sentenza.

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