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Questo articolo è stato pubblicato il 22 marzo 2014 alle ore 09:32.
L'ultima modifica è del 22 marzo 2014 alle ore 16:57.

SIMFEROPOLI - Uscendo di casa, al 4 della Samokisha, dico a Dima che mi piacerebbe ritornare a Simferopoli, tra qualche mese, per vedere come andranno le cose. E lui mi guarda come se avessi detto una grandissima stupidaggine. «Come vuoi che vada - sbotta stupito che non ci sia arrivata da sola - ora che siamo con la Russia "vsio shikarno budet", andrà tutto a meraviglia».
Ci crede sinceramente. Nei nostri dieci giorni in Crimea, mentre ci accompagnava su e giù per la penisola, Dima non ha fatto che elencarci, dandolo per scontato, tutto ciò che i russi di qui si aspettano da Mosca. Investimenti e lavoro, stipendi più alti e prezzi più bassi, una vita migliore scandita dai rintocchi della torre Spasskaja, che detta il tempo dal Cremlino. Si va due ore avanti, Dima è entusiasta: è talmente in sintonia con quelli di lassù che si sveglia regolarmente alle sei. «Non mi sono mai abituato all'ora di qui», assicura.
Eppure lui qui c'è nato, ma il suo mondo è un altro. Per provare a comprendere la sua nostalgia basta chiedergli di raccontare i giorni del servizio militare a Sebastopoli, marinaio nella Flotta del Mar Nero. Indica la baia a Nord del porto, i depositi di scarti arrugginiti, e attacca: «Era la fine degli anni 80, c'era ancora l'Urss. Qui stavano i sottomarini, là le navi. L'Ucraina si è venduta tutto».
È gelida di vento Sebastopoli, bella di sole e di storia. Giù da una scaletta slabbrata, sopra la baia, il cortile del Museo della Flotta del Mar Nero nasconde missili e cannoni inglesi e russi tra gli albicocchi che stanno fiorendo. Stasera si farà festa, il sindaco Aleksej Chaliy è volato a Mosca perché sono due i soggetti che la Russia accoglie nella Federazione, la Repubblica di Crimea e Sebastopoli, «città-leggenda» la chiama Vladimir Putin. Sulla via Lenin, un gruppetto di personaggi si materializza all'improvviso come il diavolo di Bulgakov agli Stagni del Patriarca: un biondino avvolto nella bandiera sovietica, un'aspirante poetessa che declama versi inneggianti a questa primavera russa, un collega cinese, abbracciato a turno dai passanti al grido di «compagno!». E Valentina, che non fa che piangere di commozione, e mi strappa il quadernino dalle mani per scriverci sopra tre numeri di telefono: «Devi tornare assolutamente a trovarci, festeggeremo». Trentasei anni fa è venuta qui da Kursk per sposare un marinaio: «Non puoi immaginare cosa significa oggi per noi, noi siamo russi!». Per un istante mi è sembrato di essermi ritrovata a Mosca, la mia prima volta, estate 1987. Quasi quasi mi mettevo a cercare sulla Lenin i distributori di kvas, bicchieri di vetro e succo giallognolo a ogni angolo di strada, allora.
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