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Questo articolo è stato pubblicato il 22 marzo 2014 alle ore 09:32.
L'ultima modifica è del 22 marzo 2014 alle ore 16:57.

Un ragazzo mostra la bandiera sovietica sulla via Lenin di SebastopoliUn ragazzo mostra la bandiera sovietica sulla via Lenin di Sebastopoli

Non eravamo venuti in Crimea per questo. La storia all'inizio era un'altra. Partiva dal Maidan, lumini nella nebbia di Kiev, falò e odore di fumo, ferita aperta. Il 21 febbraio i dimostranti avevano respinto gli accordi stretti dall'opposizione con Viktor Yanukovich, fuggito poche ore dopo. L'opposizione si era installata in fretta al governo ma il Maidan era rimasto lì nelle sue tende che ingombrano il centro, a ricordare le proprie richieste, a onorare i suoi Cento beati. Il volto dell'ultranazionalista Stepan Bandera e quello di Gesù stanno vicini accanto al palco, non è facile capire il Maidan oggi. «L'atmosfera è molto pesante a Kiev», confida qualcuno alludendo alle ombre che si allungano su ogni cambio violento di regime, al terrore sceso su chi si ritrova dalla parte sbagliata. Nel bene e nel male i nuovi leader ucraini, bisogna ammettere, non hanno avuto tempo per farsi conoscere: l'ira di Putin non glielo ha concesso. Dopo aver strappato Kiev all'Europa a suon di aiuti e sconti sul gas, il presidente russo si è trovato spiazzato dalla fine di Yanukovich: non dev'essere una sensazione che gli piace.

La nuova Ucraina stava per sfuggirgli un'altra volta di mano, e il declassamento della lingua russa ha dato allo Zar di tutte le Russie il pretesto per agire. Come un orso stuzzicato. In meno di una settimana, la Crimea era in mano agli uomini verdi mascherati, i soldati che Mosca non ha mai ammesso fossero suoi. «Chiunque può comprare un'uniforme in un negozio», ironizzava Putin. Ma quelle armi non le compri alla fiera dell'usato. Uno degli incappucciati, equipaggiatissimo e truce, se ne sta all'imbarco del traghetto di Kerch, lo stretto all'imbocco del Mar Nero dove, invece del confine con la Russia, presto ci sarà un ponte. L'uomo mi fa venire in mente un soldatino schierato sulla Piazza Rossa, la prima mattina del golpe del 1991. Una vecchietta gli agitava contro il bastone, rimproverandolo: «Siete contro la gente!». Era chiaro che il golpe sarebbe fallito. Ripensare a quei giorni fa male.

È un nazionalismo esasperato la nuova ideologia che ha riempito il vuoto lasciato dall'Urss. Non avendo motivi reali per intervenire in Ucraina, Putin ha ricreato il nemico, i "barbari ai confini". Ha inventato le minacce contro gli abitanti di etnia russa, ha rispolverato il passato. E ora per le strade di Simferopoli non si fa che parlare dei fascisti di Leopoli e di Kiev, «traditori come i collaborazionisti che andavano incontro ai nazisti con pane e sale», come ripete sprezzante il nuovo comandante russo della base ucraina di Bakhchisaraj.

«La Crimea è sempre stata parte della Russia», ha chiarito finalmente Putin nel solenne discorso del 18 marzo al Cremlino, togliendosi la maschera per tutti. Quel discorso è il momento di massima distanza dall'Occidente. Riscrive la storia come gli pare, a spese di Khrusciov, dei bolscevichi, dell'indipendenza ucraina. Con un'alzata di spalle e qualche battuta sarcastica («i marinai della Nato sono bravi ragazzi, ma proprio non mi immagino di essere loro ospite a Sebastopoli, molto meglio il contrario») Putin liquida anni di tentativi di costruire fiducia tra i due fronti. «Ci hanno sempre imbrogliato - accusa - mettendoci di fronte al fatto compiuto con l'allargamento della Nato, lo spiegamento di infrastrutture belliche ai nostri confini...Le sanzioni? Ma se hanno sempre lasciato in vigore restrizioni alla nostra economia».

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