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Questo articolo è stato pubblicato il 25 marzo 2014 alle ore 06:36.

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ROMA
Non si può censurare la verità dei fatti, né legittimare la menzogna con il silenzio, se in gioco c'è la professionalità, l'onorabilità e la credibilità dei magistrati, nonché la loro autonomia e indipendenza. La reazione del magistrato va valutata tenendo conto delle specifiche modalità di offesa o di manipolazione della realtà e non con riferimento ad «astratte alternative», «inefficaci» sul piano della tutela. E poiché «la verità raccontata dai media si sovrappone alla verità storica e si fissa nella memoria collettiva con un irrecuperabile danno all'onore», spesso l'unica via concreta, efficace e tempestiva è il ricorso ai media.
Perciò Annamaria Fiorillo - il pm dei minori del Tribunale di Milano - aveva il diritto di smentire la falsa ricostruzione dei fatti resa in Parlamento, il 9 novembre 2010, dall'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni per giustificare l'operato della Questura di Milano che affidò la minorenne Ruby a Nicole Minetti. Maroni disse che l'affidamento avvenne «su indicazione del pm dei minori di turno la sera del 28 maggio, cioè della Fiorillo. Falso. E la Fiorillo reagì, nel silenzio delle altre istituzioni che avrebbero avuto invece il dovere di intervenire subito. Reagì spiegando alla stampa la verità dei fatti (versione che poi ha trovato pieno riconoscimento nel processo Ruby, poiché il Tribunale ha creduto a lei e non ai funzionari della Questura). Perciò ieri le sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 6827) hanno annullato la sentenza con cui la Sezione disciplinare del Csm l'aveva invece «censurata» per aver violato il diritto al riserbo (quindi il dovere di imparzialità), rinviando allo stesso Csm una nuova valutazione delle circostanze di fatto in cui maturò la reazione, e sulla base dei princìpi enunciati: se un magistrato si vede attribuire dagli organi di informazione un provvedimento diverso da quello adottato ma anche inconciliabile con i propri doveri e con l'immagine che deve dare di sé, per la credibilità propria e della magistratura, la sua reazione non contrasta con il valore dell'imparzialità. Il problema, semmai, sono i mezzi con cui si difende. Fiorillo era ricorsa a due interviste e a un comunicato stampa per smentire tempestivamente, e con analogo risalto mediatico, le "bugie" di Maroni. Secondo il Csm, avrebbe dovuto attendere la fine del processo (ma Berlusconi non era neppure indagato) o l'intervento del suo capo (per definizione discrezionale, tant'è che non intervenne) o la tutela del Csm (chiesta, ma subito archiviata). Indirettamente la Corte fa capire che si tratta di «alternative astratte» e anche «inefficaci» e così facendo, pur rimettendone la valutazione allo stesso Csm, sembra riconoscere, implicitamente, che la Fiorillo non doveva essere censurata per la sua reazione.
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