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Questo articolo è stato pubblicato il 29 marzo 2014 alle ore 08:12.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 14:18.

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MILANO - La moda, il lusso, l'alimentare. A fare scalpore sono soprattutto le acquisizioni, da parte di multinazionali straniere, delle eccellenze del made in Italy: da Krizia o Loro Piana, da Poltrona Frau alla pasticceria Cova, solo per citare i casi più recenti e discussi.
Ma il fenomeno va ben oltre e riguarda spesso aziende più piccole e meno note, operative nei comparti produttivi «core» dell'industria (meccanica, logistica, elettronica), rappresentative di una capacità manifatturiera che rende le aziende italiane appetibili per gli investitori stranieri, nonostante il «sistema Paese» sia ancora poco attrattivo.

Negli ultimi tre anni, secondo la banca dati di S&P Capital IQ, le operazioni di fusioni e acquisizioni perfezionate da aziende e gruppi esteri in Italia sono state 198, per un valore di 53,9 miliardi di euro. Ad acquistare in parte o interamente le imprese italiane sono stati, negli ultimi cinque anni, soprattutto gli americani e i francesi. Alla General Electric è andata lo scorso anno la divisione aeronautica di Avio, mentre la modenese Marazzi (ceramiche) è stata acquisita da Mohawk Industries. Tra i francesi i più attivi sono i grandi gruppi del lusso (Lvmh e Kering), dell'alimentare (Lactalis) e della grande distribuzione (Carrefour e Auchan).

I tedeschi guardano soprattutto alle regioni del Nord-Est, dove hanno portato talora modelli produttivi e di relazioni sindacali innovativi e di successo, come dimostra il caso dell'integrazione tra Volkswagen e Lamborghini o Ducati in Emilia Romagna, regione dove si contano 144 aziende controllate o partecipate da gruppi tedeschi. In Veneto fanno gola ai fondi stranieri il tessile-abbigliamento (Pal Zileri, partecipata al 65% dai reali del Qatar), la chimica avanzata (con l'americano Sgs che ha di recente acquistato la Galentis Spa) e le utility del gas (l'anno scorso il fondo americano Amber è entrato nella trevigiana Ascopiave). E cominciano ad affacciarsi con determinazione anche gli investitori cinesi: da Shenzhen Marisfrolg, che ha recentemente rilevato Krizia, al colosso dell'elettronica Haier, dato in pole position per l'acquisizione della marchigiana Indesit. Assieme a russi e arabi, gli investitori asiatici sono tra i più interessati alle strutture alberghiere: in vista di Expo 2015 la società internazionale di consulenza Jones Lang LaSalle ha stimato acquisizioni potenziali per un controvalore di 600 milioni.

I settori più attrattivi sono però quelli della manifattura, in particolare macchinari, computer, elettronica, oltre alle già citate eccellenze della moda e dell'alimentare. «Non dobbiamo avere paura di queste operazioni», spiega Franco Bruni, docente di Teoria e politica monetaria internazionale all'Università Bocconi di Milano. «Ormai - prosegue - siamo al secondo round, per così dire, della globalizzazione, non è più possibile ragionare in termini di Stati nazionali. Quindi non dobbiamo scandalizzarci se i russi, ad esempio, entrano nel capitale di Pirelli, né al contrario se la Fiat investe all'estero». Quello che servirebbe in questa nuova fase, osserva Bruni, è piuttosto una politica comune tra i Paesi dell'Europa per una regolamentazione capace di competere con i veri concorrenti, la Cina o gli Stati Uniti, in termini di attrattività per le imprese, dal punto di vista fiscale, amministrativo e giuridico.

L'altra faccia della medaglia è il «reshoring», ovvero il rientro in Italia di alcuni gruppi industriali, spinti soprattutto dall'aumento dei costi del lavoro in quei mercati verso cui per anni si è delocalizzato, ma anche dalle previsioni di ripresa del nostro Paese. Un fenomeno che ha riscontri in tutta Europa: secondo un sondaggio della Confederation of British Industry (Cbi, la Confindustria britannica), un terzo delle principali imprese europee ha riportato la produzione in patria negli ultimi tre anni: per quanto riguarda l'Italia, la quota di chi ha rilocalizzato si attesta attorno al 29%, mentre un altro 18% sarebbe intenzionata a farlo nei prossimi tre anni.
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