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Questo articolo è stato pubblicato il 30 marzo 2014 alle ore 08:11.

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La rimodulazione dei rapporti fra la politica e la rappresentanza, fra le tecnostrutture come la Banca d'Italia e i sindacati, sta avvenendo mentre il tessuto civile e industriale del Paese sperimenta una transizione complessa. Una transizione che passa attraverso l'innovazione materiale e immateriale. Qualunque ricetta si imporrà nel dibattito delle idee e nel confronto dei poteri – fra la ricerca di semplificazioni di matrice lib-lab rapide al limite dell'ipercineticità o la conferma di forme concertative riammodernate secondo criteri di efficienza più "tedeschi" – esiste un problema di reale capacità di assorbire intelligenza dall'estero, in grado di vivificare con l'innovazione immateriale il nostro sistema industriale. L'osmosi delle intelligenze è, infatti, unidirezionale. Cediamo cervelli. E va bene. Ma non riusciamo a importarli. E va male. Perché gli immigrati high skilled – ad elevate competenze, con una istruzione terziaria – potrebbero incrementare il tasso di efficienza e di creatività di una manifattura italiana che – se vuole conservare la propria consistente innovazione incrementale, aggiungendovi un pizzico di quella radicale – deve restare aggrappata il più possibile alle catene internazionali del valore.
I dati, riportati nel volume "People first. Il capitale sociale e umano: la forza del Paese" e ottenuti dal Centro studi Confindustria elaborando studi della Fondazione Rodolfo Debenedetti, sono eloquenti. Gli immigrati high-skilled venuti in Italia dai primi trenta Stati Ocse sono 57.515, lo 0,1% della popolazione italiana. In Germania se ne contano dieci volte tanto: 566.185, lo 0,69% della popolazione. In Francia, quattro volte tanto: 240.867, lo 0,4 per cento. Il diaframma italiano funziona soltanto nella direzione opposta, in uscita: sono 395.229 i lavoratori high-skilled che hanno lasciato l'Italia per andare nei primi trenta Stati Ocse. Dunque, la "bilancia dei cervelli" è negativa per 337.714 casi. Uno squilibrio enorme. Alla nostra manifattura queste persone servono. Il problema è che, per la fisionomia del Paese, non riusciamo nemmeno ad attirarle quando stanno completando la loro formazione, prima dunque che entrino in una fabbrica o in ufficio studi, in una direzione commerciale o in centro di design.
Prendiamo i dottorati. In Italia gli studenti stranieri dei Ph.D. sono 1.926: il 5% del totale. In Francia sono dodici volte tanto: 24.997, il 35 per cento. In un Paese come il Regno Unito, che gradualmente sta riscoprendo l'economia reale (si pensi alla rinascita dell'automotive industry), sono 40.139: il 42 per cento. La risibilità della quota italiana ha, fra le sue origini, la "bureau-crazy", come uno studente ha definito la burocrazia italiana – la stessa che fa impazzire gli imprenditori e i cittadini – in un'analisi della Fondazione Debenedetti riportata nel rapporto del Csc: due terzi degli studenti stranieri di dottorato ha riscontrato ritardi nel rilascio e nel rinnovo dei certificati di residenza. Alcuni li hanno ricevuti dopo che avevano terminato il dottorato.
Il quadro - desolante - sul capitale umano di matrice straniera, che dovrebbe essere impiantato nel delicato corpo manifatturiero italiano, è completato dal cattivo utilizzo che facciamo degli immigrati che abbiamo già. Capita che qualcuno abbia una preparazione culturale e professionale superiore a quella richiesta dal suo lavoro: tecnicamente si chiama "sovraistruzione". Secondo una elaborazione del CsC, su dati dell'Istat, accade al 19,5% degli italiani. Per gli stranieri si sale al 41,2 per cento. Le matematiche ucraine che aiutano gli anziani. Gli informatici romeni che scaricano le cassette di frutta al mercato. Per incrementare il tasso innovativo di una manifattura in via di transizione, il nostro Paese non può fare a meno di utilizzare - al meglio - il talento di nessuno.
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