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Questo articolo è stato pubblicato il 05 aprile 2014 alle ore 17:19.
L'ultima modifica è del 05 aprile 2014 alle ore 17:57.

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Shigeru Ban (Afp)Shigeru Ban (Afp)

TOKYO - Shigeru Ban sarà anche quest'anno al Salone del Mobile di Milano. Arriva dopo aver appena conseguito quello che è considerato il premio Nobel per l'Architettura: il Pritzker Architecture Prize, che l'anno scorso era andato a Toyo Ito. Il Pritzker viene assegnato per onorare «un architetto vivente i cui lavori realizzati dimostrano una combinazione di quelle qualità di talento, visione e impegno che hanno prodotto coerenti e significativi contributi al'umanità e all'ambiente costruito attraverso l'arte dell'architettura».

«Non sono un architetto "giapponese"»
Ban, nato 56 anni fa a Tokyo, chiarisce di non riconoscersi nell'etichetta di "architetto giapponese" che lo accompagna. «Sì la mia nazionalità è giapponese ma in Giappone ho solo finito la scuola superiore. Non ho mai studiato architettura in Giappone, ma solo negli Stati Uniti» (dal 1977 al 1980 fu al Southern California Institute of Architecture e poi alla Cooper Union School of Architecture). E prosegue: «Lavoro nel mondo molto più che in Giappone. Certo all'estero spesso i clienti mi chiedevano qualcosa di legato alla tradizione giapponese perché era quello che cercavano, ma la mia generazione non ha avuto una formazione giapponese. Odio utilizzare consapevolmente come stile la cosiddetta tradizione giapponese, la cui influenza nel mio lavoro, consciamente, non c'è. Inconsciamente, forse il modo di connettere esterni e interni ha che fare con questa influenza. Ma l'influenza giapponese mi è arrivata indirettamente in California, a Los Angeles, attraverso i Case Study Houses degli architetti americani degli anni Cinquanta e Sessanta. La nazionalità non è importante. Mi dicono anche che uso carta e cartone per gli edifici perché sono giapponese. In realtà, nella tradizione giapponese si usa la carta solo per le pareti divisorie, come schermatura e non in modi strutturali. Insomma, una influenza conscia e diretta dall'architettura giapponese non ce l'ho e non mi sono mai riconosciuto della definizione di architetto giapponese».

L'impegno per profughi ed evacuati
Ciò che forse distingue maggiormente Ban - nel quadro delle sue soluzioni innovative incentrate sull'utilizzo di materiali semplici e per lo più rinnovabili - è l'impegno nell'architettura disaster relief: da vent'anni aiuta i sopravvissuti a conflitti e disastri naturali con il design e la realizzazione di strutture e centri comunitari temporanei, a basso costo e con materiali riciclabili, ma sempre con l'obiettivo di migliorare le condizioni dei sopravvissuti. La sua Ngo, Voluntary Architects' Network, è in prima fila in questi progetti fin dal terremoto di Kobe del 1995. Mentre altri architetti si concentrano in soluzione costosissime ad alta tecnologia, Ban resta fedele alla sua preferenza per materiali non convenzionali, riciclabili ed economici, che siano carta, cartone o tessuti o addirittura container.

Il perchè di una vocazione umanitaria
Ban, incontrando i giornalisti della stampa estera di Tokyo, ha spiegato perché è scattata in lui una molla che l'ha portato a cercare di aiutare con la sua arte le vittime dei disastri: «Diventando architetto, sono andato incontro a una delusione, Pensavo che si trattasse di una professione orientata socialmente, ma in realtà lavoriamo per lo più per gente privilegiata: siccome il potere e il denaro sono invisibili, ci arruolano per dimostrare agli altri con ‘monumenti' il loro potere e denaro. Gli architetti sono gente troppo fortunata: hanno a che fare in genere con persone spesso ricche e felici. Mentre avvocati e medici hanno a che fare con gente che ha problemi, noi no. Mentre si progetta e si realizza una casa il cliente ha uno dei momenti più belli della sua vita».

Così Ban ha sentito di dover andare oltre la norma, quasi come restituzione di un sovrappiù persino imbarazzante, finendo per investire anche soldi propri nell'architettura del disaster relief. Dal Ruanda del genocidio del 1994 al terremoto dell'Aquila del 2009, fino alla tsunami giapponese del 2011 e al tifone delle Filippine di qualche mese fa. Suo è l'Auditorium per la musica sorto nel capoluogo abruzzese, su finanziamenti soprattutto del governo giapponese, inaugurato nel 2011 con materiali semplici ma con grande cura dell'acustica: nel ricordare il progetto al Foreign Correspondents' Club of Japan,, Ban ha fatto pure battute ironiche sui due premier dell'epoca che avevano presentato insieme il suo progetto a margine del vertice G8, Silvio Berlusconi e Taro Aso.

Quanto al Giappone settentrionale dopo il terremoto e tsunami, Ban ha lavorato molto nella situazione di emergenza nei tempi immediatamente successivi in varie direzioni: dalle pareti divisorie per consentire un po' di privacy agli evacuati nelle strutture collettive di emergenza a soluzioni temporanee più confortevoli rispetto a quelle fornite in modo standard dal governo. Ma ora Ban dice che ci sono tanti architetti che stanno trovando opportunità di lavoro nel Tohoku e lui non intende interferire. Perché il suo focus resta sulle esigenze delle vere emergenze, che si verificano subito dopo i disastri. E per affrontarle meglio sta promuovendo la realizzazione, in Paesi in via di sviluppo, di prefabbricati di nuova concezione in "glass fibers". Che possono alleviare le condizioni degli slum locali e fornire soluzioni temporanee convenienti nei Paesi avanzati quando accadono disastri.

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