Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 06 aprile 2014 alle ore 08:15.

My24

Da qualunque prospettiva lo si prenda, Gli innamorati di Goldoni è un testo anomalo, fuori dai canoni dell'epoca e dalla misura raziocinante del suo autore. I continui bisticci tra i due giovani protagonisti, Eugenia e Fulgenzio, il loro incessante prendersi e lasciarsi, e lasciarsi quando vogliono prendersi e prendersi quando decidono di lasciarsi, quel non riuscire a stare insieme e non poter fare a meno l'uno dell'altra trascendono l'intento goldoniano di fare su di loro «la più bella commedia di questo mondo», evocano una patologia del sentimento più vicina a Bergman che all'Illuminismo.
Tradizionalmente questi comportamenti tormentosi e tormentati si sono prestati ad approcci registici diversi e in qualche modo opposti: quello di Strehler, che ebbe - credo - uno sguardo affettuosamente comprensivo nei riguardi degli smarrimenti giovanili che essi implicano, e quello invece di chi punta a sottolineare l'intima nevrosi presente nei personaggi: è ciò che fece, ad esempio, Massimo Castri nella sua lettura cupamente "meteorologica" del testo, segnata dai tuoni e dai lampi di un metaforico clima temporalesco.
Andrée Ruth Shammah, nell'affrontare la commedia al Teatro Franco Parenti, ha scelto, viceversa, la strada di una leggerezza assoluta, per certi versi esemplare: la sua messinscena sembra ricercare una solare trasparenza fin dall'adattamento drammaturgico, affidato a un autore veneto di oggi, Vitaliano Trevisan, che ha puntato sulla finzione dichiarata, sugli effetti di una smaliziata impostazione meta-teatrale. I personaggi, usando le parole di Goldoni, commentano l'azione nel momento stesso in cui le danno vita, si interrogano, esprimono la propria opinione sulle incertezze dei due innamorati.
Tutti i bravi interpreti impegnati nelle parti di contorno, da Elena Lietti a Silvia Giulia Mendola a Umberto Petranca, entrando alla ribalta si scambiano i gesti di intesa di una compagnia di attori spiati durante le prove di uno spettacolo. Tutti indossano i loro abiti "a vista", prendendoli da grucce esposte in vari punti dello spazio, e assumono con disinvoltura identità diverse semplicemente cambiando un cappello. A dir la sua c'è persino un "doppio" dell'autore, Ridolfo, che forse svolge questo ruolo anche nel testo originale, essendo non a caso, come lui, avvocato, ma che qui va addirittura a sistemarsi su una sedia da regista con la scritta "Goldoni" impressa sullo schienale.
A sottolineare queste suggestioni di "teatro nel teatro" c'è il grande palcoscenico nudo, o per meglio dire sistemato in modo tale da mostrarsi per ciò che è, un palcoscenico, appunto, con al centro un tappeto quadrato circondato da piccoli lumi, senza precisa collocazione temporale. E senza tempo sono anche gli splendidi costumi di Gian Maurizio Fercioni, una serie di capi dello stile più svariato, spolverini, maglioni, cuffie, sciarpe, tutti tendenzialmente molli, informi, in una gamma di bianchi diversi, a evocare un' immagine ideale, priva di consistenza reale, quasi astratta.
E poi c'è il fine lavoro di cesello svolto dalla regista soprattutto sui due protagonisti, Matteo De Blasio e Marina Rocco, in particolare su quest'ultima: ogni suo atto, ogni sua postura, i piedi lievemente divaricati, le manine agitate a dar pugnetti nell'aria, ne fa l'emblema di una tenerezza adolescenziale, quasi nostalgica, che trascende il personaggio per diventare un atteggiamento complessivo verso la vita. In questo taglio accattivante c'è il rischio, a tratti, di un'eccessiva semplificazione, specialmente nei confronti di quella lingua goldoniana che andrebbe pronunciata nelle sue sfumature, non solo detta. Ma la grazia, la freschezza alla fine prevalgono, e appagano il pubblico che sempre affolla questo teatro.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Gli innamorati di Carlo Goldoni, regia di Andrée Ruth Shammah, Milano, Teatro Franco Parenti, oggi ultima replica

Commenta la notizia

Shopping24

Dai nostri archivi