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Questo articolo è stato pubblicato il 06 aprile 2014 alle ore 08:14.

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L'anima col corpo morta fanno, i seguaci di Epicuro secondo Dante (Inferno 10, 15). Mentre i Campi Elisi ospitano con Aristotele anche Democrito, che pure «'l mondo a caso pone», non è prevista salvezza per gli Epicurei, condannati ad ardere dentro sepolcri che nel giorno del giudizio verranno sigillati, se pur in buona compagnia: Farinata, Cavalcante, Federico II. Persone di alto livello politico e culturale, purtroppo Epicurei, quindi dediti alla ricerca del piacere, senza timori per un'eternità cui non credono, legati alla materialità della vita. Questa è la versione dell'Epicureismo giunta fino a noi, che ancora definiamo con un sorriso come epicurea ogni gozzoviglia, e presunti epicurei i partecipanti. In verità, come è noto, Epicuro predicava una vita di astensione da ogni piacere non necessario alla sopravvivenza, come bere per dissetarsi o dormire per riposare. Il culmine della felicità è infatti nella assoluta assenza di turbamento e passione, nella atarassia che comporta anche assenza di dolore, aponia. Altro che orge. Se è nel momento della morte che si capisce l'uomo, ecco le parole di Epicuro nel frammento a noi giunto della Lettera a Ermarco: «Epicuro a Ermarco, salute. Volge per me il supremo giorno. Così acuti sono i dolori alla vescica e alle viscere, che più oltre non può procedere il dolore. Pure a essi s'adegua la gioia dell'animo mio, nel ricordare le nostre dottrine e le verità da noi scoperte». Morì di calcoli, e pur tra atroci dolori provava gioia nel ricordare i dialoghi con i discepoli e gli amici della sua scuola, il Giardino. Lo Stoico si sarebbe ritenuto superiore al dolore, imperturbabile anche se racchiuso nella fornace bronzea del «toro di Falaride», la più crudele pena capitale greca. Epicuro invece del dolore prende atto, scrive a Ermarco di una gioia tutta intellettuale e poi gli chiede di provvedere ai figli del suo amico Metrodoro, rimasti orfani. Un altro segno di differenza con l'isolamento del sapiente stoico, questo atteggiamento paterno e fraterno. Epicuro teneva infatti in gran conto l'amicizia, era per lui il valore più importante nella vita sociale, grazie al quale venivano superate le barriere tra uomo e donna, tra cittadino e schiavo o straniero: a mezzo secolo dall'Etica Nicomachea, Aristotele con la sua amicizia solo "tra pari" è del tutto superato da Epicuro. Abbiamo solo frammenti e parti delle molto numerose opere di questo ateniese nato nel 342 a.C. sull'isola di Samo, dove il padre era stato mandato come maestro di scuola: tre lettere, qualche libro dell'opera Sulla natura, citazioni.
Ora un saggio introduttivo del giovane Francesco Verde, aggiornato e preciso, consente un bilancio su ciò che noi possiamo dire di sapere di Epicuro e della sua dottrina. Gli scritti indicavano la via da seguire per raggiungere il piacere dell'impassibilità o piacere "catastematico": dapprima lo studio della fisica permetteva di comprendere la struttura di un mondo fatto di atomi che cadono paralleli e a caso a volte si incrociano per via di un casuale clinamen, una casuale inclinazione (fu Epicuro quindi che «'l mondo a caso» pose). Anche la conoscenza avviene attraverso uno spostamento di atomi che rende sempre veritiere le sensazioni, sarà casomai sbagliato il giudizio che da queste si fa discendere. Tale giudizio è possibile grazie alla prolessi, ovvero grazie alla possibilità di anticipare con il ricordo la forma di quello che ci si presenta ai sensi. Non è l'anamnesi di Platone, perché non c'è un "prima" nelle praterie della verità da richiamare alla memoria. Non è nemmeno l'illuminazione dei neoplatonici: si tratta proprio materialmente di modellini che si staccano dall'oggetto mantenendone la forma e vengono catturati dalla vista o dagli altri sensi. Così se una torre quadrata da lontano sembra tonda, non è per un errore della vista, ma perché davvero la forma della torre attraversando tanto spazio "diventa" tonda. Dopo la fisica, la «scienza del canone» organizza il sapere come farà poi la scienza moderna, secondo le regole dell'esperienza e non secondo teorie predefinite. Il culmine di tutto questo sapere è l'etica, perché lo scopo del sapiente è vivere bene. Qui Epicuro ha proposto soluzioni molto originali, riprese poi da Lucrezio (con maggior pessimismo) come da Ugo Foscolo e parte degli Illuministi. Andando alla radice di tutto, è la paura della morte e dell'aldilà che per prima toglie piacere al vivere. Ma, come si legge nella Lettera a Meneceo, quando ci sarà la nostra morte, noi non ci saremo più. Il dolore? Se è leggero passa; se è intenso finirà presto, perché ci porterà alla morte. Gli dei? Per accettarli come buoni e potenti, si devono pensare del tutto indifferenti alla sorte dell'uomo, forse nemmeno consapevoli della sua esistenza, in un loro mondo a parte. Non possono farci paura, così come non dobbiamo temere la mancanza di godimento, perché sapendo scegliere e perseguire solo i piaceri necessari, non saremo mai delusi dal desiderio insoddisfatto. Chiamava "quadrifarmaco" queste sue dottrine, Epicuro, medicina contro la paura, per una vita libera dall'affanno del desiderio frustrato, contenta di quello che ha, come un invitato a un banchetto che non sa quando dovrà andarsene: se sapiente, l'invitato saprà gustare una per una le portate, senza pensare a quella che forse non potrà assaggiare. Ma Epicuro e i suoi amici del Giardino di Atene erano avvantaggiati, nessuno intorno a lor prometteva bellezza, immortalità e gloria in cambio di qualche acquisto, un po' di improcrastinabile shopping.

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