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Questo articolo è stato pubblicato il 08 aprile 2014 alle ore 20:41.

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Il genocidio del Ruanda vent'anni dopo. «Ricordo ancora la faccia terrorizzata di uno dei nostri vicini, che corse da noi per avvisarci che i militanti avevano abbattuto tutte le nostre mucche e ne avevano mangiato la carne con tutta la pelle, come fossero animali. "Andate via, scappate. Prima che sia troppo tardi" ci disse. Quello fu il giorno in cui iniziammo a nasconderci. Passavamo le giornate nella foresta e la notte ci mettevamo in cammino per allontanarci il più possibile dalla nostra casa». A parlare è Emerithe che vent'anni fa, nel 1994 cercò scampo dal genocidio insieme al figlio Aldo, di pochi mesi.

Nei boschi, in quei giorni, cercava salvezza anche Jean Bosco Gatabazi. Oggi è sposato, ha cinque figli ed ha un esercizio commerciale. All'epoca del genocidio Jean aveva 19 anni e fatica a ricordare quei momenti. «Per me, è stato come guardare la pioggia cadere, ma senza sapere come e perché - racconta -. Il genocidio non è stato un periodo di qualche mese, ma quegli eventi sono stati l'apice di una persecuzione durata anni, cominciata molto tempo prima del 1994. Il Paese era diviso. Una parte della popolazione ha convinto il resto che i tutsi fossero pericolosi e che non ci sarebbe stato nulla di male a sterminarli. La povertà ha contribuito, perché rubare a un Tutsi era considerato legittimo e molte famiglie hanno migliorato la loro posizione sociale grazie alle confische delle proprietà tutsi».

Il denominatore comune che unisce Aldo, sua madre Emerithe e Jean Bosco Gatabazi si chiama Avsi, Ong italiana tra le prime a varcare il confine con l'Uganda per sostenere le vittime del conflitto con interventi di emergenza. «Ci rendemmo conto che per ridare una speranza a quel popolo distrutto nella mente e nel corpo da quello che era successo occorreva ridare pace alla mente dei bambini» spiega Lucia Castelli, per anni cooperante di Avsi in Ruanda.

Per Jean Bosco Gatabazi «il genocidio è qualcosa che va oltre l'umana comprensione – ricorda -. È stata una ferita enorme per tutto il Ruanda. Ricordo che, al termine delle stragi, ho pensato che la mia vita si sarebbe fermata. Disoccupati, senza una prospettiva, abbiamo cominciato a chiederci cosa sarebbe venuto dopo, ma facevamo fatica a immaginarci un futuro. Prevaleva la paura di non riuscire più a ricominciare, a tornare alla vita che facevamo una volta». Jean entra in contatto con Avis nel 2003, «perché aiutavano mia nipote Delphine, orfana dall'età di 8 anni. Lavoravano al fianco dei più vulnerabili, in particolare con gli affetti da Hiv. Avsi ha aiutato anche me, con il cibo e il sostegno materiale, ma anche e soprattutto a ricostruire la fiducia in me stesso e nella vita. Così ho potuto costruirmi la mia casa in città e lasciare l'isolamento in campagna. È accaduto soprattutto grazie al contatto umano e allo scambio con gli altri. È come se avessi aperto gli occhi».

Aldo, invece, che oggi ha una ventina d'anni, aveva otto anni e andava alle elementari quando entrò nel programma di sostegno a distanza della Ong italiana. «Gli assistenti sociali mi diedero una grande mano – racconta ricordando l'incontro con Avsi -. Grazie a loro ho avuto un supporto tangibile e la forza di andare avanti, studiare e costruire il mio futuro. Ora sento di avere i mezzi necessari ad andare avanti per la mia strada da solo, costruirmi un futuro di unità e riconciliazione per me e la mia terra. Per me, le commemorazioni del genocidio coincidono con il mio primo passo verso un futuro migliore».

«Il nostro impegno, in vent'anni, non è cambiato – spiega Lorette Birara, attuale rappresentante di Avsi Ruanda –. Occuparsi delle conseguenze del genocidio è più che mai necessario. E questo vuol dire prendersi cura della vita dei ruandesi, e ridar loro un valore come persone». Fondazione Avsi, che proprio nel 1994 ha iniziato il suo lavoro al fianco delle popolazioni ruandesi, oggi opera in tutto il Paese nei settori educativo e sanitario. Dagli interventi di emergenza degli anni '90, gli operatori portano avanti progetti più a lungo termine. «Lavorare in un paese con un passato così pesante è complicato, ma necessario a restituire alle persone la possibilità di recuperare la loro umanità – sottolinea Alberto Piatti, presidente di Fondazione Avsi - E questo è possibile solo attraverso il rapporto personale, attraverso un incontro umano in grado di risvegliare il desiderio di vita e l'esigenza di un significato dell'esistenza».

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