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Questo articolo è stato pubblicato il 08 aprile 2014 alle ore 16:23.
L'ultima modifica è del 08 aprile 2014 alle ore 16:43.

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Fiori di plastica in un foro di proiettile sull'edificio di Kigali in ricordo dell'uccisione dei 10 militari belgi che diede il via al genocidio rwandese (Reuters)Fiori di plastica in un foro di proiettile sull'edificio di Kigali in ricordo dell'uccisione dei 10 militari belgi che diede il via al genocidio rwandese (Reuters)

Quando, nel luglio del 1994, le milizie tutsi del generale Paul Kagame entrarono vittoriose a Kigali, si trovarono davanti solo distruzione. Il Rwanda del dopo genocidio era un Paese in ginocchio. Il più povero del mondo – secondo quanto denunciava un rapporto diffuso dalla Banca mondiale l'anno seguente - con un reddito medio pro capite di 21 centesimi al giorno (oggi è superiore ai due dollari). Il nuovo governo di unità nazionale si trovò davanti a una situazione desolante: nelle casse del Tesoro non c'era un dollaro.

Gli uffici governativi erano stati quasi tutti saccheggiati. «Se era rimasta qualche penna, non c'era carta su cui scrivere. Avevano rubato anche le porte», ci ricordava un funzionario governativo. Le latrine pubbliche erano spesso intasate di cadaveri, come i pozzi. L'acqua era contaminata, la rete elettrica inesistente. I raccolti di tè e caffè, una delle risorse nazionali di un Paese a quei tempi dalla spiccata vocazione agricola, erano andati distrutti. «Giravamo come un esercito di zombie. Avevamo visto l'inferno, non avevano più voglia di vivere», ci raccontava Claude, uno dei tutsi sopravvissuti, mentre attendeva il minibus. La conversazione durò poco. Il minibus arrivò puntuale, così come gli altri mezzi pubblici che oggi affollano le vie della vivace capitale.

Girando per Kigali non si può non notare la pulizia. Ogni ultimo sabato del mese, tutti i ruandesi, dal manager al lavapiatti, si ritrovano con scopa e guanti per ripulire le strade. In nessun altro Paese africano sono stati vietati i sacchetti di plastica; dal 2006 qui si usano solo quelli di carta.

Quanto al crimine, è quasi assente. Criticato dall'opposizione per aver instaurato una "democrazia" con ancora molte falle – un vero sistema multipartitico è ancora di là da venire, i dissidenti non possono esprimere liberamente la proprio opinione, la libertà di stampa è severamente limitata, così come diversi altri diritti – il presidente Paul Kagame ha comunque portato il Paese a traguardi impensabili 20 anni fa: la mortalità infantile è crollata del 70%, i decessi legati alla malaria, una piaga ancora per molti Paesi africani, sono caduti verticalmente dell'80%, il 92% dei bambini frequenta le scuole elementari. Dal 2005 ogni cittadino ruandese ha diritto al servizio sanitario pubblico. Nessun Paese al mondo può vantare un Parlamento con una presenza femminile così alta: le onorevoli sono il 64 per cento. Qui, le donne sono una colonna portante della società e ricoprono incarichi di rilievo in ogni settore.

I dati economici non sono meno incoraggianti: negli ultimi cinque anni il prodotto interno lordo è cresciuto a un media dell'8 % e secondo la Banca mondiale il Rwanda è il secondo posto migliore dell'Africa per aprire un'attività di business, e ancora al secondo posto – puntualizza Transparency International – per il basso livello di corruzione. Da anni il Paese ha investito molto sui servizi e sull'Information technology, divenendo il riferimento per l'Africa orientale in questo settore.

«Ci chiamavano il Paese delle mille colline, noi ci definiamo il Paese dei mille miracoli», spiegava François, piccolo imprenditore. Nell'anno corrente il Pil dovrebbe crescere ancora, oltre il 7 per cento. Eppure, anche nel settore economico vi sono forti criticità. Il 63% della popolazione vive ancora con 1,25 dollari al giorno e l'82% con meno di due dollari. Insomma, per ora si tratta di un boom senza benessere, dove le sperequazioni sociali ed economiche sono ancora alte. Solo per avere un'idea, nel 2011 nelle mani del 10% della popolazione più agiata si trovava il 43% del Pil.

Le critiche più accese sono concentrate quasi esclusivamente su Paul Kagame, il signore del Rwanda. Cinquantasei anni, al potere da 20, ha trionfato nelle due ultime elezioni presidenziali (2003 e 2010) con percentuali bulgare, più del 90% dei consensi. E, per quanto la Costituzione lo preveda, non sembra aver intenzione di mettersi da parte quando scadrà il suo secondo mandato, nel 2017, accusano diversi esponenti di alcuni partiti dell'opposizione che sono stati messi fuori gioco. E se parlare di appartenenza etnica è ora proibito – probabilmente per non accendere rancori mai sopiti e promuovere la riconciliazione nazionale – molti hutu ruandesi lamentano discriminazioni ai loro danni.

La maggior parte delle migliori opportunità di lavoro e le migliori posizioni finiscono per andare in mano ai tutsi, che rappresentano il 14 % della popolazione. Il processo di riconciliazione, comunque,ha compiuto passi da gigante. Ma il difficile viene ora. Passare da un governo che ha fatto molto dal punto di vista sociale ed economico a un vero sistema multipartitico. Il Paese delle mille colline ha bisogno anche di questo.

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