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Questo articolo è stato pubblicato il 13 aprile 2014 alle ore 08:14.

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Il paese è sempre Schabbach, nell'Hunsrück, la regione dove Edgar Reitz nacque nel 1932. La famiglia è ancora la protagonista della trilogia di Heimat, i Simon, attraverso cui il portavoce del "Nuovo cinema tedesco" ha raccontato la storia del suo Paese, dalle macerie della prima guerra mondiale agli anni 2000. Ma Die andere Heimat - di cui domani il regista parlerà ad Ascona nell'ambito della manifestazione L'immagine e la parola - è un fatto a sé. I Simon sono retrocessi nel tempo, alle soglie del 1840, nel villaggio che pare una casa di bambole, sporcata dal freddo e dalla miseria, sotto la cappa quasi medievale dell'impero prussiano. Un borgo che si sogna di lasciare per fame, o per bramosia di chimere, come avviene al giovane Jakob (Jan Dieter Schneider), funambolo di lingue esotiche, imparate sui libri di viaggio.
Die andere Heimat in italiano è stato reso con L'altra Patria, ma il vocabolo Heimat non ha un corrispondente nelle lingue neolatine e in inglese; solo nello slavo dòmovina. «La parola tedesca "Heimat" è certamente connessa a diversi significati secondari carichi di emotività -, spiega il regista -. Ecco perché è così difficile da tradurre. Non descrive soltanto il luogo della propria infanzia, ma anche la particolare sensazione che colleghiamo alle nostre origini, la sicurezza e la felicità correlate al senso di identificazione, e nello stesso tempo, la percezione di aver perso tale appartenenza. Suppongo che nelle parole e nei concetti, ed è così in ogni lingua, si rispecchi l'esperienza vissuta da diverse generazioni. Quella delle popolazioni germaniche, scandinave o slave deve dunque celare un vissuto che ben rappresenta il concetto di "Heimat" e che magari risale a migliaia di anni fa. Non possiamo saperlo».
Forse è un vocabolo strettamente legato agli esodi, alla necessità di spostarsi, di cui si parla sia in Heimat, che in Die andere Heimat. «Il concetto di "emigrazione" contempla la somma di una moltitudine di motivazioni che spingono a lasciare la propria patria per trovare felicità e fortuna in un Paese straniero. A me interessano le storie individuali, non il movimento migratorio in senso lato. Le ragioni che nel 1923 portano Paul ad andare via non si spiegano facilmente; lui stesso non riesce a definirle. È un impulso intrinseco che lo fa partire. Vi è un'altra parola tedesca pressoché intraducibile che ho scelto come titolo della prima parte di Heimat 1: "Fernweh". I presentimenti che tormentano il giovane Jakob per Die andere Heimat sono ancora più complicati, poiché egli viaggia nei lontani Paesi del Sudamerica soltanto con la fantasia. Anche qui ho scelto un sottotitolo per descrivere la vita interiore di Jakob - Chronik einer Sehnsucht - Cronaca di un Desiderio -. Un senso di nostalgia e struggente malinconia che il tedesco descrive con la parola "Sehnsucht", un leitmotiv del romanticismo. Si tratta di un anelito rivolto sia al futuro sia al passato. Una vera e propria contraddizione che attanaglia l'animo del giovane. Per questo motivo Jakob non riesce a decidere, ma si fossilizza nei propri sogni». Una nostalgia che si percepisce nelle immagini potentissime di una campagna dalla bellezza assorta ma avara di frutti, e negli interni oscuri, saturi del fascino e delle paure degli antri magici.
Ogni tanto il bianco e nero è illuminato da colori, come il cappottino rosso e le fiammelle in Schindler's List (1993) di Steven Spielberg: il rosso del sangue e di un ferro di cavallo incandescente, l'azzurro dei fiordalisi in un campo mosso dal vento, l'arancione di una pietra in controluce. «Nell'era digitale il film in bianco e nero non esiste più, è una decisione puramente artistica che concerne la fase di "post produzione". Quando si converte la policromia in monocromia si può anche decidere di riprodurre alcuni oggetti nella loro cromaticità originaria. Sono oltre trent'anni che cerco questo tipo di effetto e solo ora ci sono riuscito. In questo modo i colori tornano a far parlare di sé».
Reitz nella lezione di domani promette di raccontare la nascita della sua ultima opera, che ha richiesto tre anni di preparazione e uno di produzione. Ma anche gli esordi, di quando, giunto a Monaco nel 1952, sperimenta il teatro, la letteratura e la poesia, fino a dedicarsi completamente al cinema, produzione, fotografia montaggio, prima ancora della regia. «Sin dagli anni Sessanta mi sono fatto portavoce del cinema tedesco d'autore. Nella mia generazione la storia cinematografica tedesca ha svolto un ruolo solo marginale. Naturalmente abbiamo anche noi i nostri classici, risalenti all'epoca del cinema muto, con Murnau o Lang, che sono stati un po' "i nostri avi". Io ho preso esempio dai grandi registi del cinema europeo, ispirandomi soprattutto al cinema italiano del dopoguerra, ai film di De Sica, Rossellini, Visconti e Fellini». Die andere Heimat ricorda, tra l'altro, le atmosfere di L'albero degli zoccoli (1978) di Olmi e Novecento (1976) di Bertolucci. «Mi fa molto piacere che vengano citati questi fantastici registi del cinema italiano. Apprezzo moltissimo i film di Ermanno Olmi, lo sento vicino, come un fratello, anche se non ci siamo mai incontrati. Bertolucci è uno dei grandi nomi del cinema europeo, conosco tutti i suoi film, dal primo all'ultimo. Mi è piaciuto soprattutto Il Conformista». Nel 1962 Reitz è tra i firmatari del "Manifesto di Oberhausen" che rivendica il diritto di creare un nuovo corso cinematografico, Junger Deutscher film. «Nei primi anni, ovvero sino alla fine degli anni Settanta, con molti cineasti tedeschi, per esempio Kluge, Herzog e Fassbinder, era nata una profonda amicizia. Poi le nostre strade si sono divise», continua il regista.

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