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Questo articolo è stato pubblicato il 17 aprile 2014 alle ore 08:09.

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(Afp)(Afp)

Barakat, basta, è il grido di protesta lanciato dopo l'annuncio della quarta candidatura alla presidenza di Abdelaziz Bouteflika, 77 anni, un leader usurato, sfibrato dall'ictus, che era già ministro degli Esteri nel 1963, a 26 anni, quando ancora il Paese rimarginava le ferite della guerra coloniale antifrancese.
Bouteflika ha battuto ogni record di precocità e di longevità.

Era combattente nella resistenza da adolescente, poi diventò il giovane uomo di fiducia del futuro presidente Houari Boumediene, venne eletto deputato a 24, nominato ministro della Gioventù a 25, quindi titolare del dicastero degli Esteri, presidente negli anni '70 anche dell'Assemblea generale dell'Onu, quando negoziò il rilascio degli ostaggi catturati dal famigerato terrorista Carlos. Poi un lungo periodo di esilio, la "traversata nel deserto" come la definisce lui stesso, ai margini di quel potere algerino di cui è stato uno dei fondatori.
Ora si prepara a diventare il presidente algerino che è rimasto in sella più a lungo, dal 1999, quando fu richiamato dai generali per far uscire l'Algeria dagli anni di piombo: un decennio con 150mila morti e 10mila desaparecidos. Alcuni dei suoi predecessori non hanno avuto altrettanta fortuna: Ahmed Ben Bella, suo compagno di strada e carismatico leader rivoluzionario, venne esautorato da un golpe, mentre Mohamed Boudiaf, anche lui nel clan dei primi capi della rivolta, fu assassinato nel '92.

È anche l'unico dei raìs, insieme al ben più giovane Bashar Assad, sopravvissuto alla primavera araba che qui è stata soffocata con un mix di generosi contributi assistenziali, finanziati dalle entrate di gas e petrolio, e una repressione occhiuta e capillare. Alla vigilia della visita ad Algeri del segretario di stato John Kerry, il ministro degli Esteri algerino Lamamra è stato categorico: «Primavera araba è un termine di cui respingo persino la definizione».
L'indignazione di una parte della popolazione che andrà a votare contro di lui - o resterà a casa in segno di protesta e apatia - è destinata probabilmente a rimanere delusa. Il suo consenso si è eroso ma il presidente può contare su un elettorato consistente, per convinzione, per interesse o semplicemente per timore di sgradite sorprese. Prefetti, amministratori locali, sindaci, dirigenti pubblici, attivisti del vecchio partito del Fronte nazionale di liberazione, oltre ai corpi di sicurezza, ligi alle indicazioni dei vertici, si sono mobilitati per lui.

Costretto dalla malattia al silenzio, è stato il suo ex primo ministro Abdelmalek Sellal a condurre la campagna elettorale con fiammeggianti discorsi mentre Bouteflika restava sullo sfondo, quasi un fantasma di cui venivano evocati meriti e virtù. Un po' come negli ultimi tempi accadde anche ad Habib Bourghiba in Tunisia, esautorato negli anni Ottanta da una sorta di "golpe medicale" con il contributo dei servizi italiani.
Il suo principale concorrente alla presidenza, Alì Benflis, anche lui uomo del potere, si è quindi scagliato nei comizi contro un'ombra sfuggente e sarebbe in risultato davvero sorprendente se arrivasse al ballottaggio.
Il paese appare stabile ma immobile, affidato a uomo sfinito che dovrebbe governare 33 milioni di persone di cui la metà sotto i trent'anni. Ma quella di una leadership che non appare certamente proietta verso il futuro non è l'unica incognita dell'Algeria.
Questo per l'Italia è un Paese strategico: fornisce un terzo del metano e attraverso la Tunisia è collegato dalla pipeline del Transmed che appare un cordone ombelicale con la Sponda Sud.

Se la crisi Ucraina facesse saltare il progetto del gasdotto russo South Stream, l'Algeria, come la caotica Libia, rappresenta l'alternativa a portata di mano per sfuggire almeno in parte alla dipendenza dal gas di Putin. Ma le cose stanno davvero così? Non sempre l'Italia da queste parti è mossa bene: la confessione di un dirigente della Saipem di un tangente versata agli algerini da 200milioni di dollari ha provocato più di qualche fibrillazione. Non tanto per la somma: le autorità algerine sono inquiete perché per la prima volta dei giudici stranieri si sono occupati di una vicenda di corruzione. La regola per sopravvivere in Algeria è che niente deve trapelare dall'ermetico cerchio di "Le Pouvoir", un clan di politici e generali che fanno affidamento sui servizi e le Forze Armate.
Ma a preoccupare di più è il calo delle riserve mentre aumentano i consumi interni. Le esportazioni di gas e petrolio sono passate nel 2013 da 70 a 63 miliardi di dollari. Le compagnie straniere come l'Eni, storico partner della Sonatrach, la spagnola la Repsol, la British Petroleum e l'americana Conoco, sono in corsa per aggiudicarsi 31 contratti di esplorazione ma non è detto che lo sfruttamento dei nuovi giacimenti sarà sufficiente a compensare il declino di quelli vecchi.

L'Algeria è ancora un'economia fondata sull'esportazione di idrocarburi che pagano tutto e uno stato assistenziale che tende a coprire con gas e petrolio i problemi sociali. Ufficialmente la disoccupazione è al 10%, in realtà soltanto un quarto degli algerini ha un posto di lavoro vero, gli altri campano di sussidi o sui salari di una pubblica amministrazione che si è inventata anche il "pre-impiego": giovani assunti a 90 euro al mese per non fare nulla e restare a casa. I mali dell'Algeria di oggi, dopo la fine del socialismo, appaiono molto simili a quelli antichi: per questo il lungo addio del dinosauro Bouteflika è una scommessa anche sul futuro.

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