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Questo articolo è stato pubblicato il 20 aprile 2014 alle ore 08:14.

«Leibniz ha profuso nella opera una tal messe di germi intellettuali, che a stento altri potrebbero competere con lui. Parte di questi germi vennero a maturazione durante il suo tempo e grazie al suo contributo, parte cadde in oblio e fu riscoperta e ulteriormente sviluppata in seguito. Ciò giustifica l'aspettativa che anche di certe altre parti della sua opera, che oggi sembrano morte e sepolte, si possa celebrare un giorno la rinascita». Corre l'anno 1880/81, quando Gottlob Frege così si esprime, memore dell'idea lebniziana, da lui amata e perseguita, di una lingua sive Characteristica universalis, idea geniale, mai realizzata, forse irrealizzabile, e, ora, più che mai riusciamo a intuirlo, non tanto a causa delle difficoltà tecniche dell'impresa, quanto della sua adeguatezza e validità, su un pianeta in cui non si riesce più a dialogare bene in una stessa lingua condivisa, o in lingue affini, poiché si rifiutano ignobilmente i riferimenti oggettivi alla realtà, preferendo loro il riferimento soggettivistico, egotistico a sé.
Anni prima, Denis Diderot, seppur lontano dalle posizioni di Leibniz, ne tesse gli elogi, magnificando un genio che, con fare eccelso, tratta di mondo, di Dio, di natura, di anima. Ma, come non ignoriamo, Leibniz, da poliedrico, rispetto anche a filosofi della propria epoca, si appassiona di ben altro e con successo, oltre alla filosofia. Basti ricordare analisi matematica e calcolo infinitesimale (benché di origine greco-ellenistica, e con una lunga storia successiva, la "base" e la portata moderna del calcolo si devono a Leibniz o a Newton?), senza poi menzionare altre professioni di Leibniz, tra cui quelle di diplomatico, giurista, storico, magistrato, e i suoi contributi nei settori della geologia e della linguistica.
Come ai tempi si usa e si può, i coinvolgimenti intellettuali e filosofici risultano plurimi; oggi, invece, in virtù di una buona specializzazione, non riusciamo, né dobbiamo interessarci di tutto, pena la funesta tuttologia. Così in Leibniz troviamo una cultura e un'innovazione, di cui in molti non dovrebbero incensare se stessi. Cultura e innovazione che si esprimono soprattutto nella sua Monadologia (Bompiani, con testo francese a fronte), saggio compatto, classificato perlopiù come metafisico, ma che oltre il metafisico va. Monadi che, nella loro varietà, costituiscono oggetti di base, di cui il resto è composto. Monadi che finiscono con rimandare a menti: "menti" che si limitano a percepire, senza altra elaborazione oltre l'osservazione, menti inconsapevoli, o addirittura prive di memoria (e, allora, rientrano nelle menti?; lungimirante però quest'idea, considerata l'odierna profusione di menti di tal fatta); menti in cui, invece, percezione e memoria si congiungono, su un piano animale non umano; menti animal-umane a cui pure e soprattutto la razionalità appartiene; ma chi si entusiasma ormai più dell'alto gradino conseguibile della mente? E, poi, a quali menti apparteniamo o aspiriamo appartenere, al di là di una possibile ipotesi di determinismo che non ci consentirebbe scelta?
A giusto trecento anni, la Monadologia (1714), non la Teodicea, ci induce a riflettere per la sua complessità, che, a volte cede tuttavia all'oscurità, già a partire dalle prime affermazioni su monadi-sostanze, problema cui Leibniz si dedica, a ogni modo, da tempo e che forse lo turba, vista l'urgenza di affrontarlo nella corrispondenza con Burcher de Volder (si veda il bel e recente volume The Leibniz-De Volder Correspondence. With Selections from the Correspondence Between Leibniz and Johann Bernoulli, Yale University Press).
Però, il punto al momento rilevante rimane la ragione, il ragionare tramite verità necessarie e il ragionare tramite verità contingenti, congiuntamente alla capacità di distinguere tra quanto è necessario e quanto è invece contingente. La rilevanza del punto, a mio avviso, non consta tanto nel fatto che, passando per la contingenza, Leibniz intenda approdare a una dimostrazione dell'esistenza di Dio, dimostrazione che notoriamente non funziona, bensì nel fatto che quanto è necessario e quanto è invece contingente si sia sviluppato in seguito, trovando uno dei suoi migliori culmini nella riflessione di un nostro contemporaneo, quale Saul Kripke, che affronta il problema della nostra identità personale e della nostra conoscenza: nel mondo possibile, non quello attuale, in cui tu esisti, in che senso puoi esistere e come si riesce a individuarti?
Leibniz giudica il nostro mondo, quello attuale, il migliore dei mondi possibili. Bene, se sei in grado di comprovare il giudizio da un punto di vista metafisico. Bizzarro, invece, dal punto di vista epistemico, perché per affermare che questo è il migliore dei mondi possibili, dovresti conoscere tutti gli altri. A ogni buon conto, come è noto, Voltaire nel Candide, ou l'Optimisme se ne prende gioco. Ottimismo pourquoi?
Last but not least, sorge da sempre il problema del raffronto tra l'uomo di corte, da una parte, e del dissidente dall'altra. Il Dio, cui intendevo solo accennare, torna e ritorna. Per Baruch Spinoza, ebreo, la cui amara vicenda esistenziale è nota, il Dio/dio si dispiega nella natura. Svolge (Spinoza), con la scomunica (o varie scomuniche?) il lavoro di tornitore di lenti, a dispetto della sua originale erudizione creativa, costretto all'esilio rispetto a tutto, relazioni d'amore incluse. Spinoza viaggia ben poco e, purtroppo, le curiosità (per lo più epistolari) nei suoi confronti, di intellettuale isolato, confinato, si rivelano spesso interessate, più che interessanti, pure sotto il profilo "amicale".

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