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Questo articolo è stato pubblicato il 20 aprile 2014 alle ore 08:14.

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Fede, speranza, carità di Ödön von Horváth è un testo adatto a periodi di crisi economica: la trama, incentrata su una poveraccia che per trovare i pochi soldi necessari a pagare una multa per l'esercizio abusivo del commercio ambulante tenta di vendere il proprio corpo alla ricerca scientifica, e che a causa di quella multa incorre via via in una serie di guai che la porteranno a gettarsi nel fiume, è ispirata a un caso di cronaca vera. E l'autore austriaco si propose appunto di registrarlo con una sorta di gelida oggettività, prosciugata di ogni retorica.
Ma quale tipo di oggettività richiedono, in effetti, le opere di von Horváth? Certo non il distacco epico di Brecht, che decisamente non gli apparteneva, e neppure il livido frammento di realtà perseguito dal naturalismo, all'epoca – siamo negli anni Trenta – ormai da tempo alle spalle. Così questa presunta fedeltà documentaria rischia di trasformarsi in un fantasma col quale devono confrontarsi generazioni di registi.
Lo stile teatrale di Christoph Marthaler sembra l'esatto contrario di qualunque oggettività. Dalle scene di Anna Viebrock, che riproducono ambienti pubblici e privati a dimensioni naturali, pronti però a trasformarsi l'uno nell'altro, ai fantastici attori sempre volutamente goffi, improbabili, tutti fuori luogo e fuori parte, alle continue contaminazioni di recitazione, passi di danza, vari generi musicali, pochi segni registici sono personali e riconoscibili, dunque altamente soggettivi, come i suoi.
Credo sia anche per far fronte a questo intimo scarto che Marthaler nello spettacolo presentato a Milano, al teatro Strehler, ha creato intorno al testo una costruzione espressiva sovrabbondante e, rispetto ad altre sue precedenti proposte, qua e là piuttosto ridondante. Questo aspetto, a ben vedere, non riguarda solo la protagonista, sdoppiata e affidata a due attrici che la affrontano in modi diversi, talora persino opposti. Ogni personaggio è raffigurato in una luce deformante, da attori che non hanno l'età e il physique du rôle, molte azioni sono grottescamente ripetute più e più volte.
Penso che questo sia un tentativo di togliere alla varia umanità che affolla la pièce la sua tipicità, proiettandola in una tipicità diversa. Scopo del regista, a mio avviso, è spersonalizzare quanto più possibile questi individui – che rappresentano i vari settori della società, la scienza, la giustizia, la polizia, il commercio – scavalcando i concetti di bontà e cattiveria individuale per evidenziare un meccanismo inesorabile, tanto più agghiacciante in quanto procede per suo conto, prescindendo dalle specifiche qualità morali di chi lo muove.
Marthaler palesemente trascende l'episodio, per calarlo in un più ampio orizzonte storico. Non per nulla i cadaveri di ragazze ripescate nel fiume a un certo punto si moltiplicano, si ammucchiano alla ribalta. E il brano finale sull'edificazione di un'immaginaria Arcadia, dove tutti i problemi sono risolti, dove persino l'idea di Stato è da considerarsi superata a favore di un armonioso coro di cittadini appagati, sembra un messaggio alla Germania odierna, in cerca di un benessere conquistato anche a costo di passare sui corpi degli esclusi.
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Glaube Liebe Hoffnung, di Ödön
von Horváth, regia di Christoph Marthaler, visto a Milano
al Teatro Strehler

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