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Questo articolo è stato pubblicato il 27 aprile 2014 alle ore 08:14.

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La medicina, per definizione, non può che essere umana, ma l'odierno panorama è diverso. Oggi la medicina è caratterizzata da uno sbilanciamento della componente tecnologica ed economico-finanziaria rispetto alla componente antropologica dell'arte lunga, definizione della medicina data da Ippocrate. Gli antichi clinici propugnavano il concetto «pensare da medico», cioè individualizzare ogni singolo caso: non esiste la malattia ma il malato, di cui bisogna conoscere, oltre ai sintomi, la storia, l'ambiente di vita e di lavoro. Il medico consigliava il malato e forse lo guariva, ma sempre lo consolava. Cosa avviene nella mente e nel cuore di un malato quando prova sofferenza e dolore? L'essere umano non è solo un insieme di molecole, né il medico può essere un frigido automa che tratta ogni paziente come semplice applicazione di protocolli con un lavoro burocratico. Nel tempo attuale riscontriamo una sanità frazionata in professioni, specializzazioni, perfezionamenti. Occorre ricomporre i saperi e ricondurre il malato da numero a individuo, con una maggiore percezione dei bisogni dei pazienti, con rispetto, ascolto, solidarietà. Qual è l'essenza della medicina? Una pratica basata su scienze ed esercitata in un mondo di valori. La medicina resta una scienza «debole», che non possiede algoritmi certi, come quelli necessari per risolvere un'equazione. Il medico molte volte decide in condizioni probabilistiche.
Il rapporto medico-paziente, da tempo immemorabile, è saldato da un legame che non presenta solo fondamenta scientifiche, ma è basato sulla religio medici, cioè la religione medica del dovere. Tale rapporto – con funzioni pedagogiche e di tutela – si sintetizza nella pietas, vale a dire attenzione alle sofferenze del paziente. L'uomo è titolare di diritti, che sono dovuti per il fatto stesso che è uomo. Quest'alleanza plurimillenaria si è rotta per quattro motivazioni scrivibili: al medico, al malato, all'irrompere crescente e tumultuoso della tecnologia e al moloch della produttività. Una medicina arida e distante, rinchiusa in una superba torre dottrinale, sorda ai valori umani. Oggi non c'è più tempo e patrimonio mentale per un'arte medica ove esperienza, colloquio e rapporto diretto siano fondamentali per una riappropriazione da protagonista della professione medica.
Il malato trattato come un numero o una cosa – a causa dell'eccesso di specializzazione, spersonalizzazione, burocrazia – diviene sempre più ostile e cova un rancore vendicativo verso quella che considera una lobby ingorda. A ciò si aggiunge che il cittadino e i suoi familiari richiedono non solo l'obbligazione di mezzi ma l'obbligazione di risultato, vale a dire la guarigione sempre e comunque. Da qui l'emergere di una maggiore responsabilità da parte dei medici, che devono acquisire nuove abilità di comunicatori e scrupolosi mediatori tra i linguaggi scientifici e i diversi registri della comunicazione sociale, che il filosofo e sociologo Habermas definiva «agire comunicativo».
Da più parti si auspica una medicina come «arte» fondata su un forte rapporto etico-socio-antropologico con il malato, attraverso varie espressioni: medicina umana, narrativa, condivisa, dell'ascolto, con una sempre migliore comunicazione medico-paziente. La scienza medica deve contaminarsi con bioetica, storia, antropologia, psicologia, biopolitica, biodiritti, filosofia, con attenzione sempre ai problemi sociali. Dalla crescente distanza medico-malato promana la «Medicina Difensiva», con danni al malato e alti costi per la comunità, valutati pari a circa il 10 per cento dell'intero stanziamento per la sanità italiana. Una somma enorme: circa 13 miliardi di euro, secondo una recente analisi dell'Istat.
Per evitare il naufragio nelle lande desolate della tecnocrazia, le scienze umane devono essere abbinate a una prassi più consentanea alla dignità e alle esigenze del malato. Le scienze umane sono il «respiro della mente»: permettono una formazione slegata dall'impiego delle macchine. Nel quadro della sostenibilità finanziaria (con rigoroso contrasto alle truffe e tagli a sprechi e inefficienza) bisogna chiaramente indicare che al centro del sistema sanitario non c'è il pareggio di bilancio, ma la produzione di salute per l'uomo. Il funzionamento delle aziende è il mezzo, la tutela della salute il fine.
Un vero e proprio manifesto per la vera medicina, che si ritrova nelle parole del cardinale Gianfranco Ravasi: «Sta crescendo la consapevolezza che la malattia e il dolore sono un tema globale e simbolico, non soltanto fisiologico. L'accompagnamento umano, psicologico, affettivo e spirituale è tutt'altro che secondario. C'è bisogno di tornare a una concezione umanistica della medicina». Principi che valgono anche per i medici di morale laica. Occorre un reagente morale, un lavoro pedagogico tenace. Il mestiere del medico – faticoso, difficile, angosciante – deve tornare ad essere arte della cura, sempre condotta tra scienza e valori spirituali. È necessario il ritorno a una sanità amica, a una stretta interrelazione medico-malato. Una costruzione nella quale si incardina il diritto all'eguaglianza sociale, all'omogeneità territoriale, al paritario accesso ai servizi. Una piena applicazione della Carta costituzionale, la nostra «Bibbia civile». Vladimiro Zagrebelsky afferma che il diritto alla salute – intesa come il più elevato livello dello stato di salute raggiungibile dalla persona – è l'unico diritto che la Costituzione qualifica come fondamentale.
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