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Questo articolo è stato pubblicato il 27 aprile 2014 alle ore 08:14.

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Se chiedi a un ragazzo l'Europa cos'è, un ragazzo ti risponderà in una maniera completamente diversa da come te l'aspettavi. Se pensavi che avrebbe alzato le spalle, ti guarderà negli occhi e dopo ti parlerà per ore senza smettere mai. Se pensavi che ti avrebbe parlato per ore, alzerà le spalle e dopo le spalle anche il volume della musica nelle orecchie. C'è un momento, nella storia di una famiglia, in cui di colpo non funziona più niente. Il meccanismo di azione e reazione si rivolta a se stesso. Tutto quello che fino a quel giorno procedeva per movimenti automatici, mosso da un sistema simpatico familiare rodato, d'un tratto s'inceppa. Tutto si scassa, incrocia le braccia, in un ostinato quanto improvviso – e incomprensibile – sabotaggio. Avviene di solito quando i figli infilano le curve a gomito dei 16 anni, scombussolati dal capogiro di tutto, ciascuno mondo e Copernico insieme, la rivoluzione e la sua scoperta. È in quel momento che un ragazzo prende l'universo che ha maneggiato fino a quel giorno e comincia a dire che non è d'accordo che sia così.
È per questa ragione che consegnare un congegno a un ragazzo è un rischio e però insieme un esercizio culturale e politico: il mondo così come l'avevamo pensato finirà sottosopra, come tutto quello che passa per le sue mani. È per questa ragione, a pochi mesi dalle elezioni europee, che abbiamo deciso – con il Salone del libro di Torino – di affidare al dispositivo impietoso di venticinque ragazzi un congegno chiamato Europa. Abbiamo messo a un tavolo comune, a distanza di 1.400 km, sedicenni di Italia e Germania. Nessun negoziato da portare a termine, nessun budget da spendere, alleanze da consolidare, o leadership da confermare, ma solo dieci parole da trovare per raccontare l'Europa. Perché ogni famiglia, di fronte ai curvoni insidiosi dell'adolescenza dei figli, ha bisogno prima di tutto di un vocabolario comune, di parole che non siano il mondo già confezionato dai grandi. Le parole che i ragazzi hanno trovato – e che dall'8 al 12 maggio, al Lingotto di Torino, saranno oggetto di discussione tra loro e alcuni fra i più significativi scrittori europei, da Eugen Ruge a Vasile Ernu, da Jean Mattern a Tiziano Scarpa – raccontano l'Europa a 16 anni: Magnete, Àncora, Brace, Stormo, Circo, Pelle, Chiocciola, Sipario, Tangram, Nonostante.
Si sarebbe tentati di interpretarle, queste parole, e di usarle come pezzi mancanti di un puzzle nuovo da fare. Si sarebbe tentati, noi adulti, di impacchettare tutto e di approntare, con queste dieci parole, la confezione nuova, più agile, di un'Europa diversa, raccontata da quei ragazzi che ci mettono in crisi ogni sera per cena. Si sarebbe tentati, e le parole si prestano, dal momento che parlano di fuochi quasi spenti e di migrazioni, di forze che attraggono, spettacoli in corso, ostacoli da scavalcare, fardelli e tesori da mettersi in spalla. Farle nostre, sarebbe facile, facile frullarle e metterle dentro una nuova formina. Ma ci asterremo da questa tentazione, e i lettori della Domenica ci perdoneranno.
Pensiamo di fare un servizio migliore – a quella comunità assai più grande di una famiglia – se ci limitiamo a consegnare queste parole ai cittadini che avranno voglia di maneggiarle. Vogliamo condividere un dispositivo, piuttosto. Forse cominceranno a vedere qualche crepa allungarsi sopra il guscio d'Europa, sopra un guscio fatto di parole prese dall'economia o da un gergo politico che parla a pochi se non a nessuno. Che accettino di vedere il loro mondo che s'incrina e che un giorno si apre, e porta fuori la testa di venticinque ragazzi europei con qualche parola da dare. Ascoltiamoli, per favore, che forse hanno qualcosa da dire.
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