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Questo articolo è stato pubblicato il 29 aprile 2014 alle ore 06:39.
LONDRA. Dal nostro corrispondente
Una riga dritta che guarda all'insù. Dai primi istanti di contrattazione questo è stato il grafico dell'andamento di AstraZeneca sullo stock exchange di Londra. Un'impennata del 15% che ha coinciso con la conferma dell'interessamento di Pfizer per il gruppo farmaceutico anglo-svedese. Alla prima offerta, presentata il 5 gennaio e respinta al mittente, il colosso americano ha replicato con un secondo approccio il 26 aprile per riavviare le trattative. Una mossa ufficialmente riconosciuta da Pfizer che a questo punto ha tempo fino al 26 maggio per ribadire un'offerta ufficiale oppure, in base alle regole sul takeover in vigore in Gran Bretagna, ritirarsi.
Dalle voci ai fatti, dunque, e nel giro di pochi giorni la silhouette della maggiore acquisizione nella storia britannica e una delle più grandi nel mondo della farmaceutica, prende forma. I numeri sono destinati a salire molto oltre i 100 miliardi di dollari. Quell'assegno offerto in gennaio e che fissava il valore dell'azione a 46,61 sterline si dovrà appesantire arrivando a 56 pound, secondo quanto immaginano gli analisti di Barclays. E questo significherebbe pagare il gruppo non meno 117 miliardi di dollari. Basteranno per convincere gli shareholders del gruppo farmaceutico anglo-svedese? Resta da vedere la dinamica del mercato. Ieri il titolo è arrivato a quota 47,92 per recedere marginalmente. L'opinione di Barclays è condivisa da altri analisti che immaginano una cifra nettamente superiore ai 100 miliardi di dollari messi sul tavolo. E anche con una formula diversa da quella suggerita. Il premio concesso da Pfizer in gennaio era del 30% sui valori mercato di allora e prevedeva il 30% in contante e il 70% in azioni. Proposta che a detta di AstraZeneca sottovaluta «in modo molto significativo» il valore del gruppo. La replica del management è stata diretta soprattutto agli azionisti, invitati a stare calmi e a non adottare iniziative. È stata anche riaffermata la storica volontà della società di mantenere la propria indipendenza. Lo ha detto non più di quindici giorni fa il ceo di Astra Zeneca, Pascal Soriot alla guida dell'azienda dall'ottobre del 2012. Una dichiarazione di autonomia che ha condito con l'idea di cedere due attività non core del gruppo, mostrando di preferire l'approccio «spezzatino» adottato da Glaxo e Novartis che hanno evitato operazioni radicali, scambiandosi assets.
Difficile dire se questa sia davvero la volontà del manager di AstraZeneca o siano solo gli inevitabili tatticismi per vedere le carte dell'aspirante buyer e capire se sia anche disposto - a questo scenario gli analisti non sembrano credere - a un'operazione ostile. La determinazione di Pfizer è stata confermata dalle parole e dalle azioni del gruppo. Il ceo Ian Read ha spiegato che l'industria farmaceutica «deve rispondere alla domanda della società che richiede efficienza e produttività». Ma anche posti di lavoro. Almeno in Gran Bretagna. E per questo Pfizer ha contattato il governo di David Cameron per un chiarimento. Il deal immaginato dalla società Usa, infatti, prevede la creazione di una holding company con sede nel Regno Unito per ragioni fiscali, mentre il quartier generale e la quotazione sarebbero negli Stati Uniti. Una struttura che potrebbe compromettere il «tesoro» che AstraZeneca porta in dote a Londra. La società anglo-svedese non solo rappresenta il 2% dell'export britannico, ma occupa settemila persone ed è, soprattutto, il pilastro della ricerca nel regno di Elisabetta. È proprio la ricerca scientifica è il settore-chiave della strategia di sviluppo economico avviata dal governo a guida Tory.
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