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Questo articolo è stato pubblicato il 03 maggio 2014 alle ore 09:22.
L'ultima modifica è del 03 maggio 2014 alle ore 18:27.

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Mio padre, in quasi 85 anni di vita, ha comperato la Gazzetta dello Sport due sole volte: quando è morto Fausto Coppi e dopo la tragedia del Grande Torino. Ancora oggi, mentre lo racconta, i suoi occhi diventano lucidi. Perché «il campionissimo» e il Grande Torino non sono prigionieri del tifo, delle passioni, del mondo dello sport: fanno parte della vita del nostro Paese e ne hanno segnato la voglia e la capacità di riscatto. Hanno saputo guadagnarsi il rispetto degli avversari e l'ammirazione di chi non poteva non riconoscere, dietro quel profilo da airone o quelle maglie granata, il segno di una volontà superiore capace di donare una magia irripetibile e di spezzarla, quella magia, con la brutalità improvvisa della morte.

La storia del Grande Torino finisce il 4 maggio 1949, quando il trimotore Fiat 202 con tutta la squadra a bordo impatta contro i muraglioni della Basilica di Superga. Nessuno si salva. Un silenzio assordante e una nebbia fitta avvolgono i corpi di Valentino Mazzola, Valerio Bacigalupo, Ezio Loik. La squadra invincibile è stata vinta dall'unico avversario che non è possibile dribblare con eleganza, irridere con un tunnel, bloccare con un tackle, fermare con una parata.

La squadra che ha trasformato il calcio, portandolo avanti nel tempo con un balzo di almeno vent'anni, si è arresa a un capriccio del destino. È la fine di un sogno, non solo per i tifosi granata: è la fine di un sogno per la Nazionale italiana, che su quei giocatori contava per l'imminente mondiale brasiliano del 1950. Erano dati per favoriti, perchè come loro non giocava nessuno. Di colpo svaniscono gli scudetti vinti, la difesa impenetrabile, l'attacco impossibile da fermare, il gioco totale che si sarebbe rivisto, soltanto vent'anni dopo, con l'Ajax di Cruijff.

Resta solo il silenzio, lo smarrimento di tutto il Paese. Non contano le rivalità, non contano gli schieramenti. I tifosi di ogni squadra ammutoliscono, capiscono, rispettano. In quel maggio del 1949 gli italiani sono tutti granata.

Del Grande Torino restano 5 scudetti consecutivi, dal 1942/43 al 1948/49. Restano record come la vittoria casalinga per 10 a zero con l'Alessandria e quella per 7 a zero in trasferta con la Roma, i 125 gol segnati e le 19 vittorie in casa su 20 partite disputate nel campionato 1947/48 . Restano i dieci giocatori prestati alla Nazionale italiana vittoriosa per 3-2 sull'Ungheria, i 485 gol segnati nei cinque anni di vittorie.

Oggi, a 65 anni di distanza, li ricordiamo uno a uno: Valerio Bacigalupo, Aldo e Dino Ballarin, Emile Bongiorni, Eusebio Castigliano, Rubens Fadia, Guglielmo Gabetto, Ruggero Grava, Giuseppe Grezar, Ezio Loik, Virgilio Maroso, Danilo Martelli, Valentino Mazzola, Romeo Menti, Piero Operto, Franco Ossola, Mario Rigamonti, Julius Schubert. Con loro, sul trimotore di Superga, c'erano gli allenatori Egri Erbstein e Leslie Lievesley, il massaggiatore Osvaldo Cortina, i dirigenti Arnaldo Agnisetta, Ippolito Civalleri e Andrea Bonaiuti. I membri dell'equipaggio Pierluigi Meroni, Celeste D'Inca, Cesare Biancardi e Antonio Pangrazi. I giornalisti Renato Casalbore, Renato Tosatti e Luigi Cavallero.

Nell'Italia di fine anni 40, che usciva dalla seconda guerra mondiale, l'unico sentimento a dilagare fu il dolore. Un dolore capace di accomunare tutti: i tifosi granata, con il fiato spezzato e il cuore che sembrava scoppiare nel petto, e quelli bianconeri che riconoscevano ammirati il valore di quei campioni. I tifosi di ogni altra bandiera che in silenzio tributavano l'ultimo omaggio a chi, con la maglia azzurra, aveva portato i loro sogni in giro per il mondo.

Nell'Italia degli anni 40 non ci fu spazio per lo scherno, il compiacimento, la derisione, l'idiozia da tradurre in cori e striscioni. Per quello sarebbero occorsi anni, fino ai giorni nostri, perché l'evoluzione della specie trasformasse l'uomo in bestia.

Quando vedo gli occhi lucidi di mio padre, mentre parla del Grande Torino, capisco cosa ha rappresentato quella squadra. E spero che immaginando gli occhi pieni di lacrime di un vecchio signore lo possano capire tutti quelli che oggi dedicheranno un saluto, un abbraccio, una preghiera a tutti gli uomini morti a Superga.

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