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Questo articolo è stato pubblicato il 04 maggio 2014 alle ore 08:14.

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In un poco noto carteggio tra l'economista italiano Vilfredo Pareto e John Maynard Keynes, datato ai primi del Novecento, i due studiosi si confrontano sulla possibilità di conciliare lo sviluppo capitalistico con la protezione sociale. Keynes, più giovane di Pareto, è già direttore del l'«Economic Journal», l'economista italiano è, invece, già famoso per aver pubblicato nel 1896 il Cours d'économie politique. In entrambi gli studiosi emerge la preoccupazione dei limiti del capitalismo e del socialismo. Dopo il "secolo breve" quei timori riaffiorano con prepotenza, Robert Castel ha sostenuto che siamo entrati in una lunga stagione di incertezza mentre Max Weber, nella sua morfologia della storia universale, preconizzò che la linea progressiva di crescita economica e sociale dell'Occidente si sarebbe spezzata, a meno di non essere rivitalizzata. Tema che domina anche il Tramonto dell'Occidente di Oswald Spengler.
«Agli inizi degli anni Novanta cominciai a presentire, come molti del resto, che la fine del comunismo non potesse essere la fine della storia», scrive Renato Brunetta nel suo ultimo saggio La mia Utopia, perché «lasciare le briglie sciolte al capitalismo e al mercato, quasi fossero creature divine e provvidenti, perché si arrivasse al benessere, era utopia fasulla». A metà tra la riflessione sull'attualità tragica della crisi e una prospettiva socioeconomica che punta a un retroterra culturale, Brunetta tenta di definire la possibile ricetta capace di riannodare i fili della storia, un suo modello «un po' keynesiano, un po' marxiano», con qualche venatura di liberalcapitalismo «nel senso felice di Adam Smith».
Gli anni recenti sono stati segnati dal fallimento del turbocapitalismo finanziario e da uno spostamento dell'asse globale della ricchezza dall'Occidente verso l'Oriente, ma vale la pena considerare l'etimologia del termine "crisi" che per gli antichi greci «vuol dire decisione, scelta, che segue a un giudizio».
L'Occidente è chiamato a rivitalizzare il suo capitalismo competitivo, salvando il suo welfare e la libertà dei suoi cittadini, consapevole della fine della società dei salariati. Brunetta è convinto che sia ancora possibile guadagnare la piena occupazione, la sua ricetta parte dalla Share Economy di Weitzman, che punta a un sistema di partecipazione alternativo al classico sistema salariale; e dalla Labour-Capital Partnership di Meade, dove «sia i lavoratori sia i soci di capitale detengono quote azionarie» e l'introduzione di «azioni di lavoro».
Dunque, la prospettiva indicata è quella del passaggio dalla società dei salariati al l'economia della partecipazione, possibilità indicata anche dal Nobel Edmund Phelps nel senso di «partecipazione agli utili delle imprese da parte dei lavoratori». Questa ricetta delinea un capitalismo di un nuovo tipo dove «la piena occupazione diventa un bene pubblico» al punto che la «sua realizzazione e il suo mantenimento devono essere fortemente voluti e incentivati dallo Stato». L'autore propone un viaggio in quelle esperienze di partecipazione che vi sono già state in Occidente, da quelle della Francia di De Gaulle, alla cogestione tedesca (erede del corporativismo weimeriano del giurista Hugo Sinzheimer), all'esperienza svedese, alle esperienze americane, assecondate da Reagan.
L'Italia che pure ha avuto una tradizione teorica su questo fronte, dalla dottrina neo-volontaristica del corporativismo di Fanfani, al Santi Romano e Ugo Spirito, ha latitato nel perseguire concretamente questa strada orientandosi alla concertazione sindacale che resta deresponsabilizzata.
Il tema della rivitalizzazione delle società occidentali, di un nuovo inizio, resta sul tappeto, magari alla ricerca di quella "terza via" da tanti battuta. Al momento il dato oggettivo è il declino del nostro stile di vita, l'insostenibilità per i più, e il tatticismo del giorno per giorno mostra il fiato corto. Le utopie almeno servono a ridefinire la realtà.
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Renato Brunetta, La mia utopia, Mondadori, Milano, pagg. 168, € 18,00

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