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Questo articolo è stato pubblicato il 04 maggio 2014 alle ore 08:14.

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Ivan Locke è un imprenditore edile di Birmingham con una carriera di successo, una famiglia felice e un lavoro importantissimo da svolgere la mattina dopo: sovrintendere all'enorme colata di calcestruzzo che garantirà la stabilità di un grattacielo gigantesco, con il quale «ruberemo un pezzo di cielo», come dice orgogliosamente a un suo aiutante.
Ma la sera, quando comincia il film, invece di dirigersi a casa dove i due figli l'aspettano per guardare insieme una partita di football, gira l'auto in direzione opposta e imbocca l'autostrada per Londra. L'attende circa un'ora e mezzo di guida, che anche noi trascorriamo in tempo quasi reale (il film dura meno di novanta minuti) chiusi con lui nell'abitacolo della Bmw, come lui circondati dai fari e dalle luci segnaletiche che dardeggiano in ogni direzione e dalle voci che si susseguono attraverso il vivavoce del telefono, voci che interrogano, che minacciano, che soffrono, che amano, che imprecano, che riassumono il momento cruciale di una crisi che rischia di mandare a monte tutta la vita del protagonista. Il nodo narrativo è un bambino, generato dall'avventura di una notte avuta qualche mese prima con una quarantenne di nome Bethan: sta per nascere in una clinica londinese, e Locke intende fermamente assumersene la responsabilità. L'intuizione drammaturgica, invece, sta tutta nel fatto che Locke, fino a quel momento, non ha detto niente a nessuno ed è costretto a raccontare tutto al telefono, ostinandosi contemporaneamente a tenere sotto controllo, tramite i suoi assistenti, ogni dettaglio tecnico e organizzativo dell'epica colata di calcestruzzo.
One man show del bravissimo Tom Hardy (solo sullo schermo, a parte le voci) ed esercizio di bravura del direttore della fotografia Haris Zambarloukos e della montatrice Justine Wright, che tengono tutto in movimento costante attraverso l'esplosione delle luci autostradali, le immagini riflesse dai finestrini e dagli specchietti, gli stacchi e i cambi di campo, Locke è anche una superba prova di sceneggiatura: fatti normali, «umani», scambi di battute quotidiane, sentimenti, rabbie e paure che crescono e sfumano dietro il clic dell'interruzione di una chiamata, e poi un gesto di scoramento, una lacrima che scende e la mano di Locke che torna sempre ad accarezzarsi la barba, quasi per concentrarsi e calmarsi e mantenere l'autocontrollo vocale ed emotivo che si è imposto. L'autore della sceneggiatura è il regista Steven Knight, che ha scritto in passato due thriller londinesi notturni e cattivi (Piccoli affari sporchi di Stephen Frears e La promessa dell'assassino di David Cronenberg) e che orchestra la tensione, le sorprese, l'incubo di una notte senza fine e definitiva con gran senso del ritmo e impeccabile economia di mezzi (tranne forse il particolare del dialogo di Locke con il «fantasma» del padre, sul sedile posteriore, un po' teatrale, troppo esplicativo, vagamente shakespeariano – ma è un difetto minore). Forse a causa delle sceneggiature precedenti di Knight, Locke è stato definito un thriller, mentre è invece un'umanissima storia di tutti i giorni, attraverso la quale tuttavia Knight ci immerge in un mondo «ballardiano» (forse per la solitudine meccanica e postmoderna dell'autostrada) e cronenberghiano, che gira intorno alla razionalità e al «cemento» di cui è impastato un uomo abituato a tenere tutto sotto controllo. «Domani tornerò a casa e tutto sarà come prima», dice Locke al figlio. E a Bethan, che gli parla di amore e di odio, risponde «Io non ti conosco, non posso odiarti». E alla moglie ferita e delusa e al suo assistente terrorizzato dalla responsabilità che gli è piombata addosso ripete sempre: «Dobbiamo occuparci del prossimo passo pratico».
Ma qualcosa, sette mesi prima, gli è sfuggita di mano, e la suspense cresce proprio intorno alla domanda se Locke sarà capace o no di tenere in mano le fila della sua vita, se una colata di cemento e un atto di tenerezza riusciranno a convivere, se una scelta giusta potrà far superare alla moglie Katrina un atto sbagliato («La differenza tra mai e una volta sola», dice Katrina a Locke a proposito del suo one night-stand, «è la differenza tra bene e male»). Un film sulla giustizia e sull'assunzione di responsabilità, ma anche sulla conoscenza che deriva dall'esperienza e sulla dignità della ragione umana. Non è un caso, credo, che il protagonista si chiami Ivan (versione russa di Giovanni o John) Locke, come il filosofo dell'empirismo moderno e del liberalismo classico.
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il pirata
di Mabuse
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Los Angeles, un Taxi, la notte:
questo è Collateral (M. Mann, 2004).
Con Tom Cruise e Jamie Foxx.
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Il cellulare può salvarti la vita? Ryan Reynolds è Buried (R. Cortés, 2010).
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Il non troppo mite Ryan Gosling
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(N. Winding Refn, 2011).

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