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Questo articolo è stato pubblicato il 08 maggio 2014 alle ore 10:42.

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Amedeo Matacena (Ansa)Amedeo Matacena (Ansa)

Che fine ha fatto Amedeo Matacena, 51 anni, ex parlamentare di Forza Italia nella XII e XIII legislatura, noto imprenditore reggino (anche se è nato a Catania) nel settore della navigazione nello Stretto ed ex marito della presentatrice Rai, Alessandra Canale?
Di lui non si hanno più notizie dal 10 ottobre 2013, giorno in cui venne scarcerato a Dubai, dove il 28 agosto era stato catturato dall'Interpol e dalla sezione catturandi del nucleo investigativo dei Carabinieri di Reggio Calabria per scontare in Italia una sentenza passata in giudicato il 6 giugno 2013, a 5 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa oltre all'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Appena un mese prima, a settembre, il giudice di Dubai aveva respinto l'istanza di scarcerazione dopo il pagamento di una cauzione.

La sentenza definitiva è giunta dopo 12 anni, al termine di un lungo e complesso iter giudiziario. Coinvolto nella maxi-inchiesta "Olimpia" (dalla quale è però uscito pulito e indenne) che ridisegno la geografia criminale di Reggio e i legami con i settori deviati della massoneria, a marzo 2001 venne condannato in primo grado dal Tribunale di Reggio a 5 anni e 4 mesi di reclusione, motivo per il quale non venne più candidato nelle liste di Forza Italia. Successivamente, a seguito dell'annullamento della sentenza, la Corte d'assise di Reggio Calabria lo assolse nel 2006.

L'11 maggio 2010 la Corte di Assise di Appello lo assolverà nuovamente ma la Cassazione annullò con rinvio quest'ultima sentenza, che venne considerata «illogica» dall'avvocato generale dello Stato, Francesco Scuderi, che aveva fatto ricorso alla Suprema corte, incassando un nuovo annullamento con rinvio in appello, il cui esito darà ragione alla pubblica accusa.

Per la Corte d'assise d'appello di Reggio, presieduta da Iside Russo, con Marialuisa Crucitti a latere, che si pronunciò il 18 luglio 2012, Amedeo Matacena era colpevole di aver favorito la cosca di ‘ndrangheta Rosmini di Reggio Calabria e per questo da condannare a 5 anni e 4 mesi di reclusione. Una sentenza resa definitiva dalla Cassazione il 6 giugno 2013, che nelle durissime motivazioni depositate il 14 agosto ha affermato: «Evidentemente non si può stringere un accordo con una struttura mafiosa, se non avendo piena consapevolezza della sua esistenza e del suo modus operandi. Tanto basta per ritenere che Matacena ben sapesse di aver favorito la cosca dei Rosmini (e tanto lo sapeva da aver preteso la esenzione dal pizzo)».

A decidere di appoggiare Matacena sarebbero stati – si legge ancora nella sentenza della Cassazione – i vertici della cosca nei cui confronti l'ex parlamentare «era in grado di vantare un credito tale che non solo lo avevano esentato dal pagamento del "pizzo" relativo ai lavori che si stavano eseguendo in via Marina di Reggio Calabria, ma addirittura avevano corrisposto – di tasca propria – alle altre cosche consorziate la quota da imputare al Matacena». A inchiodarlo – si legge sempre in sentenza – sono le parole del pentito Umberto Munaò, per il quale sarebbe stato lo stesso boss Antonio Rosmini a confessare: «Non possiamo insistere perché a noi ci ha sempre favorito, a noi ci favorisce, ci aiuta se abbiamo bisogno, non possiamo forzarlo a darci i soldi... cerchiamo di farli uscire in modo diverso».

Per i giudici si tratta di «indizi gravi, precisi e concordanti della serietà e concretezza degli impegni assunti dall'imputato nei confronti del sodalizio criminale per ottenere la sua elezione alla Camera dei deputati nelle elezioni politiche del 1994».
r.galullo@ilsole24ore.com

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