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Questo articolo è stato pubblicato il 11 maggio 2014 alle ore 08:15.

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Se esiste un luogo dove l'assemblea dei capolavori ivi riuniti viene osservata con l'occhio vacuo di chi non si aspetta di scoprire niente di più di quanto già crede di sapere, questo è piazza della Signoria a Firenze. Di tale atteggiamento l'Ercole e Caco di Baccio Bandinelli è il primo a fare le spese. Realizzato per volere del papa Clemente VII tra il 1523 e il 1534, è un esempio in ogni senso macroscopico del clima di aspra competizione che si respirava nella Firenze medicea, e se risulta impensabile che il pubblico comune sia a conoscenza dei dardi che contro il colosso marmoreo scagliarono sia la cittadinanza che il Cellini, pochi sono coloro che si premurano di levare lo sguardo dalle masse muscolari, glutei, torace, dorso, e di fermarlo sui volti dei due personaggi mitologici, per leggerne le espressioni che dal furore trascorrono all'angoscia, e che sono il segno della straordinaria abilità dello scultore di penetrare nel profondo, ben oltre il limite di una pur eccellente accademia.
Altro che faccia da «lionbue», come Cellini aveva definito quella di Ercole, altro che «ritratti da un saccaccio di poponi» dei muscoli: l'Ercole e Caco è una meravigliosa sintesi di particolari di straordinaria finezza, nei quali la mano di «quel bestial Buaccio Bandinelli», interviene con piglio da scultore monumentale, non da orafo. Se non fosse stato quel che era, non avrebbe goduto, a dispetto di un manipolo di illustri detrattori, da Michelangelo a Vasari, del favore che gli fu tributato dai Medici, incuranti, o forse avvezzi alle schermaglie irate, agli alterchi, agli insulti, ai colpi bassi che a Firenze erano consuetudine fra gli artisti attivi nei decenni ruggenti del Cinquecento. Va però detto che il Bandinelli il disprezzo se lo andava a cercare. Supponente sino all'inverosimile, avaro, superbo e iracondo, era un concentrato di vizi capitali raro a trovarsi. Ma ciò che lo distingueva, era il piacere che doveva provare a esternarli, in modi così sfrontati da accendere incendi verbali. Nel 1549, vennero "scoperte" le due sculture di marmo, alte quasi tre metri, con Adamo ed Eva, nudi da Eden, realizzate per l'altare maggiore di Santa Maria del Fiore, statue di una purezza classica ineguagliabile, ma che fecero sbottare «tutta la città» e che furono giudicate «lorde e porche». Il carattere di Baccio era quello di un essere incline a una sfida continua, con l'obiettivo di emulare, anzi di superare Michelangelo. Una fissa mentale che si traduceva in una tenzone «a colpi di colossi» (Bartoli). Va detto che nel Seicento e per una parte del Settecento, l'arte di Baccio non fu malvista. Fu piuttosto l'Ottocento romantico a fargli cadere addosso la pietra tombale, e dalla tomba risorge solo oggi, grazie a questa trascinante mostra del Bargello, curata da Beatrice Paolozzi Strozzi e Derlef Heikamp. Nel tratteggiare un ritratto a tutto tondo dell'artista, la rassegna riesce a restituirgli il merito e la statura che gli competono. A cominciare dai disegni, che lo stesso Vasari, obtorto collo, fu costretto a riconoscere bellissimi. Rare volte mi è capitato di apprezzare l'inserimento di un così folto nucleo grafico nel percorso di una mostra monografica. Bandinelli è secondo soltanto a Michelangelo e a Raffaello, basta soffermarsi su alcuni dei fogli esposti: la Pietà, la Sacra famiglia, la Toeletta di Venere, l'Adorazione dei magi. Il segno che delinea le figure riprende, inevitabilmente, Michelangelo, ma la concitazione, o meglio la rabbia, che emerge in taluni fogli, è di origine donatelliana. Tanto Michelangelo che Donatello concorrono nella formazione di Baccio, avvenuta nella bottega di suo padre, orafo di professione, e di Rustici. Accanto a Rustici Bandinelli conferma una sua iniziale ispirazione leonardesca. Da Leonardo prenderà le distanze piuttosto presto. Intenzionato, agli esordi, di imboccare la via della pittura, di questo periodo sperimentale rimane solo una Leda mediocrissima, causa il colore sbagliato e le ombre portate e sorde. Il dipinto pseudo leonardesco è animato da un gruppo di nudi nello sfondo, che fremono come facelle. Sono il sintomo di come il manierismo è ormai alle porte, ma soprattutto di un prossimo risveglio del Bandinelli, ma in un campo diverso da quello della pittura.
Alla fine del secondo decennio del Cinquecento verrà chiamato a Roma a lavorare alle tombe dei pontefici in Santa Maria sopra Minerva. Il viaggio a Roma rinfrancherà quella inclinazione verso l'antichità classica che aveva magnificamente sfoderato nel Mercurio già del 1512, un marmo che è quanto di più greco sia stato realizzato a Firenze nel primo Cinquecento. Ce ne si renderà conto più avanti, quando, nella quarta camera di Palazzo Vecchio, il duca Cosimo radunerà le statue di marmo dei più eccellenti scultori del momento: Michelangelo, Cellini, Jacopo Sansovino e Baccio; nessuno di loro manifesta un'impronta classica così nitida quanto Bandinelli. Il ritorno all'antico fu comunque una costante. È visibile nell'Orfeo di palazzo Medici e nella bella copia del Laocoonte oggi agli Uffizi. È una ripresa della classicità piena di personale consapevolezza, che, nel caso dei Progenitori già in Santa Maria del Fiore, si vela di una malinconia elegiaca che parrebbe contrastare con l'animosità irritata di quel titano, così preso da se stesso da voler tramandare la propria effige in una serie stupenda di autoritratti.
Dalla malinconia al dolore. La Pietà con Cristo morto sorretto da Nicodemo all'Annunziata, era stata abbozzata da suo figlio Clemente, che non riuscì a portarla a termine perché la morte lo raggiunse nel 1557. Fu il padre a concludere il lavoro e a decidere che quel marmo dovesse ornare la cappella di famiglia all'Annunziata. Nella figura di Nicodemo è impresso ancora il sembiante di Baccio. In ginocchio sostiene il corpo di Cristo, con assai più di un'allusione al figlio, e, almeno in questa circostanza, senza la benché minima volontà di autocelebrarsi.

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