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Questo articolo è stato pubblicato il 11 maggio 2014 alle ore 08:14.

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Le mie ricerche nel campo delle neuroscienze e il mio interesse per le questioni bioetiche e neuroetiche (compresa la mia partecipazione al comitato presidenziale americano per la bioetica) mi hanno portato a studiare anche l'ambito di intersezione tra scienze del cervello e diritto. In particolare, nel 2006 fui invitato, insieme con altri studiosi di vaglia, al convegno organizzato a New York dalla Fondazione MacArthur in vista di un programma di ricerca sulle nuove frontiere della biologia. Il neurobiologo della Stanford University Robert Sapolsky propose un'idea che balzò immediatamente in cima alla lista delle proposte più interessanti: rinnovare il diritto sulla base delle acquisizioni neuroscientifiche. Venni scelto come capo del comitato il quale ebbe l'incarico di sviluppare quell'intuizione, culminata poi in un progetto che ha coinvolto giuristi, filosofi e neuroscienziati.
Uno dei temi più discussi e controversi in quest'ambito è quello delle prove neuroscientifiche portate in tribunale. Esse possono rivelarsi genuine fonti di prova così come elementi che introducono un pregiudizio o una distorsione nei verdetti. Ovviamente, tutte le prove scientifiche hanno una storia propria nel peso che assumono all'interno del processo. Così sta avvenendo per le neuroimmagini, sia strutturali sia funzionali. Il fatto di poter vedere cambiamenti o differenze all'interno del cervello grazie a un'immagine colorata comincia a influenzare le decisioni giudiziarie. Ma le neuroimmagini funzionali possono fornire soltanto una probabilità del legame tra un cambiamento nel cervello e un particolare stato (mentale). Inoltre, i risultati delle scansioni sono di solito tratti dalla media delle analisi di numerosi cervelli, diventa perciò difficile stabilire il significato di un certo schema di funzionamento cerebrale riferito a uno specifico imputato. È questo il motivo per cui la maggior parte dei giuristi e dei neuroscienziati concorda nel ritenere che sia forse troppo presto per portare in aula le neuroimmagini in quanto tali come prova diretta.
Ciò non significa, tuttavia, che esse non diventeranno sempre più comuni all'interno del processo. In questo senso, vanno considerati alcuni importanti elementi. Le neuroimmagini sono una specie di bersaglio mobile, si tratta di una tecnologia in continuo miglioramento, non si può quindi prevedere che ruolo assumeranno in futuro. Analizzando la letteratura recente, mi pare comunque che vi sia una fortissima pressione perché le neuroimmagini diventino un fatto di routine nei tribunali. E ciò potrà avvenire in 10-15 anni.
Un altro versante assai discusso riguarda la possibilità che le neuroimmagini sostituiscano i tradizionali test psicologici per la diagnosi di psicopatia. Ci si chiede se esse potranno individuare l'egocentrismo e la mancanza di empatia direttamente nel cervello delle persone. Certamente, gli strumenti di analisi dei dati cerebrali progrediscono rapidamente e i neuroscienziati hanno l'opportunità di comprendere i processi neurobiologici all'opera quando ci si trova in un certo stato cognitivo. Ciò può aiutare a stabilire se un individuo ha un'anormalità biologica. Tuttavia, queste tecniche sono troppo recenti per soddisfare i rigorosi standard fissati per l'ammissibilità in tribunale, come avviene per il test del Dna. Forse non riusciranno mai a soddisfarli, ma questo non esclude che un giorno le corti potrebbero decidere di utilizzarli per individuare stati cerebrali patologici. Penso che la prossima svolta nell'utilizzo delle neuroscienze in tribunale probabilmente sarà proprio nella diagnosi della psicopatia.
Quando si parla di scienze del cervello e diritto, un tema chiave è quello della responsabilità. C'è chi pensa che il concetto di responsabilità sia destinato a evaporare. Ma io penso che, per quanto le neuroscienze ci forniscano una migliore comprensione di come pensiamo e percepiamo la realtà, non possono dirci nulla di rilevante sulla responsabilità personale. Come ho argomentato nel mio recente libro Chi comanda? (Codice Edizioni), la responsabilità è un concetto legato a un contratto sociale tra le persone. Ci si muove a un livello di analisi del tutto diverso. Per cui, qualunque sarà il grado di sofisticazione raggiunto dallo studio del cervello, l'analisi delle responsabilità non ne sarà toccata. Anche il senso del sé che usiamo nelle nostre interazioni quotidiane resta al di fuori della ricerca neuroscientifica. Se parliamo con qualcuno, non pensiamo di parlare al suo cervello, ma con una persona; attribuiamo automaticamente l'idea di persona ai nostri interlocutori umani. Per così dire, in quel frangente siamo dualisti, perché percepiamo gli altri come persone.
D'altra parte, malgrado questa intuizione ingenua di qualcosa che va oltre il puro funzionamento del cervello, già si parla della possibilità di usare le neuroimmagini per prevedere il comportamento violento delle persone. Se le neuroscienze riusciranno a raggiungere un buon livello di affidabilità nel prevedere la probabilità che qualcuno commetta un delitto, tale conoscenza non potrà però essere facilmente introdotta nel sistema penale, per come esso è strutturato attualmente. Il nostro diritto non permette la carcerazione preventiva di un possibile criminale. Sapere che qualcuno ha un'alta probabilità di ripetere un reato non può costituire la base per un'azione legale. Si tratterebbe di un dilemma interessante e lacerante. In tutto questo, emerge il dubbio sulla competenza dei magistrati nel padroneggiare le nuove acquisizioni delle neuroscienze. In media, giudici e giurati non conoscono i dettagli scientifici delle analisi delle tracce di sangue o delle impronte digitali, né del test del Dna, ma hanno spesso a che fare con rapporti che contengono gli esiti di tali esami. Ugualmente, non penso che abbiano la necessità di sapere che cosa accade quando si realizza una neuroimmagine, fintanto che capiscono come si possa utilizzare per sostenere o rigettare un argomento di prova. E queste regole possono essere fissate soltanto dalla legge.

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