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Franco Bitossi, un «cuore matto» grande come una casa

Settima tappa, Frosinone-Foligno: 211 chilometri con qualche asperità. Un Gran premio della montagna di terza categoria, dopo neanche trenta chilometri, poi qualche saliscendi e un Gran premio di quarta categoria, il valico della Somma, a quaranta chilometri dall'arrivo. Troppo poco per spaventare i velocisti, troppo poco per spaventare il cammpione che ricordiamo oggi: Franco Bitossi.

Nato a Carmignano nel settembre del 1940, Bitossi è un altro dei grandi campioni che hanno avuto la fortuna e la sfortuna di nascere nell'epoca d'oro del ciclismo. Ossia a cavallo tra gli anni 60 e 70, quando insieme si trovarono a correre un gruppo di talenti straordinari, che se solo fossero nati dieci o venti anni dopo avrebbero vinto il triplo, tanto erano forti, E lo sarebbero ancora oggi. Franco Bitossi era in quel gruppo, dove per vincere si doveva combattere fino alla fine e battere i migliori di sempre, a partire da Eddy Merckx al quale era peraltro legato da una sincera amicizia.

Bitossi era un velocista atipico, perchè andava bene anche in salita (nel 1964, 1965 e 1966 vinse la classifica degli scalatori al Giro) ma soprattutto perchè non sapeva mai quale sorpresa gli avrebbe riservato il suo «cuore matto», che con improvvisi attacchi di tachicardia lo costringeva a fermarsi nei momenti meno opportuni. Quante gare avrebbe vinto, Bitossi, senza quel cuore matto? Di certo era comunque un cuore grande, che gli ha consentito di sfiorare quota 150 vittorie in carriera. Un traguardo che pochi hanno saputo raggiungere e superare.

A Gap, nel 1972, ha visto un mondiale svanire a venti metri dal traguardo: non per la tachicardia, questa volta, ma per la straordinaria rimonta di Marino Basso che alle sue spalle rinveniva duellando alla morte con Eddy Merckx. Quel mondiale finì in pianto con l'argento al collo, per Franco Bitossi, ma dimostrò a tutti la grandezza dell'uomo, oltre che del corridore. Non per caso, in chiusura di carriera, cinque anni più tardi salì di nuovo sul podio mondiale di San Cristobal: terzo, questa volta, ma chi pensa che conti solo l'oro non capisce di sport. Quel bronzo profumava di vittoria.

Ha fatto suoi due Giri di Lombardia, che allora erano davvero il Mondiale d'autunno, il primo dei quali con una lunghissima fuga solitaria. Dietro di lui Felice Gimondi e Raymond Puolidor, più dietro ancora Eddy Merckx. Capito, che corse in quegli anni? Ha vinto ventuno tappe al Giro d'Italia e quattro al Tour de France, il Tour de Suisse, due Giri dell'Emilia, due Giri di Romagna, un Giro del Lazio.

Ha messo le sue ruote davanti a quelle di tutti gli altri nella Coppa Bernocchi, nella Coppa Agostoni e nella Tirreno Adriatico. È stato tre volte campione italiano. Ha vinto tanto, ma avrebbe potuto vincere di più. Se avesse avuto il cuore meno matto, se fosse nato qualche anno più tardi. Ma lui è sempre stato contento così, non ha mai avuto rimpianti tranne che per il Mondiale perso sul filo di lana. Fosse in gara oggi, anche per Kittel non ci sarebbe scampo.

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