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Questo articolo è stato pubblicato il 13 maggio 2014 alle ore 06:38.

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Borsa e rupia festeggiano già il Partito nazionalista indù di Narendra Modi: dopo 35 giorni, ieri si è chiusa la maratona elettorale cominciata in India il 7 aprile. Gli exit poll confermano quello che i sondaggi prevedevano da mesi, vale a dire la vittoria di Modi, e se dovessero essere confermati si potrebbe parlare di un vero e proprio trionfo. Per i risultati ufficiali però bisognerà aspettare fino al 16 maggio.
Secondo l'indagine di C-voter, pubblicata da Bloomberg India, il Bharatiya Janata Party (Bjp) di Modi, insieme ai suoi alleati della National democratic alliance, avrebbe conquistato ben 289 seggi sui 543 della Lok Sabha, la Camera bassa del Parlamento, con 17 seggi di scarto rispetto alla maggioranza semplice (272). Abbastanza per formare un Governo senza dover necessariamente cercare alleanze con altri partiti. C-voter ha indicato un margine d'errore del 3% su scala nazionale.
Un altro exit poll, realizzato da Cicero per India Today, attribuisce al Bjp tra i 261 e i 283 seggi. Anche in questo caso una vittoria netta, come quella fotografata da Cnn-Ibn (270-282 seggi). Times Now-Org India gli assegna invece 249 seggi, mentre Today's Chanakya arriva ad attribuirgliene 340.
Il problema con questo tipo di rilevazioni in India è che non sono davvero affidabili e tendono a sovrastimare i risultati del Bjp. Nel 2009 gli attribuirono 30 seggi in più e nel 2004 addirittura 70.
Con il Congresso che dovrebbe attestarsi tra i 70 e i 120 seggi, quello che si può dire oggi è che il Bjp guiderà il prossimo Governo indiano e che ha vinto questa tornata caratterizzata dalla più alta affluenza della storia del Paese. Secondo i dati diffusi dalla Commissione elettorale, il 66,4% degli 814,5 milioni di aventi diritto ha partecipato al voto, in netta crescita dal 58% del 2009.
Il Congresso, invece, va verso la peggiore sconfitta e una difficile transizione interna: il delfino della dinastia Nehru-Gandhi e front runner della campagna elettorale, Rahul Gandhi, non ha saputo rivitalizzare un partito macchiato da scandali e promesse mancate.
Un altro responso è già acquisito: cade il tabù confessionale che finora aveva perseguitato Modi. Nel 2002, quando era chief minister del Gujarat da pochi mesi, un pogrom scatenato dagli indù contro i musulmani nel suo Stato provocò 1.200 morti. L'accusa di non aver saputo impedire le violenze e forse di averle incoraggiate, non lo ha mai abbandonato, neanche dopo l'inchiesta che lo ha scagionato. Così come non lo ha mai abbandonato la condanna delle elites intellettuali, ribadita pochi giorni fa dal Nobel per l'economia Amartya Sen.
E la Borsa brinda: dal 13 settembre, quando la candidatura di Modi è stata ufficializzata, il Sensex ha guadagnato il 19%, mentre la rupia si è apprezzata del 5,7 per cento. Su questi risultati hanno contributo, in misura significativa, anche le politiche monetarie varate dal governatore della Banca centrale, Raghuram Rajan. Ma è un fatto che la comunità degli affari puntano tutto su Modi, sperando che possa ripetere per l'India i risultati ottenuti in 13 anni di governo del Gujarat, Stato spesso accostato alla provincia cinese del Guangdong per la sua dinamicità. Con tassi di crescita da molti anni superiori a quelli del Paese, il Gujarat genera il 16% della produzione industriale indiana e il 22% dell'export, con il 5% della popolazione.
Ieri, il Sensex ha fatto segnare il nuovo record storico, mentre la moneta è salita ai massimi da dieci mesi, ignorando del tutto i dati provenienti dall'economia reale. La produzione industriale si è contratta dello 0,5% a marzo e l'inflazione ad aprile ha di nuovo accelerato, portandosi all'8,59% dall'8,31% di marzo.
Nel breve, i risultati elettorali potrebbero influire pesantemente sugli andamenti di Borsa. La vittoria a sorpresa del Congresso nel 2004 portò alla più grande ondata di vendite registratasi in una seduta in quattro anni, mentre la sua riconferma nel 2009, fece guadagnare ai listini il 17% in un giorno.
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