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Questo articolo è stato pubblicato il 18 maggio 2014 alle ore 08:13.

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Chi volesse avere un'idea di cosa significhi veramente fare cultura, dovrebbe leggere l'articolo pubblicato dal neuroscienziato Vittorio Gallese sulla rivista «Micromega». Arte, corpo, cervello: per un'estetica sperimentale è un vero e proprio manifesto che promuove la collaborazione multidisciplinare delle neuroscienze e delle scienze umane nello studio di quel fenomeno ancora assai misterioso che è la vita culturale del l'essere umano. Proprio da un famoso neuroscienziato ci proviene una lezione di metodologia animata da una profonda umiltà epistemologica: da una parte, infatti, vi troviamo una correzione di quell'attitudine neuroscientifica al riduzionismo, oggi assai diffusa, che si suole chiamare «cerebrocentrismo»; dal l'altra parte, vi leggiamo la necessità di considerare la prospettiva umanistica come assolutamente complementare a quella scientifica. Comprendere più da vicino le dinamiche di un comportamento umano come quello della creazione e della fruizione dell'arte può divenire determinante nella comprensione dell'uomo in senso lato.
Eppure sia l'estetica filosofica – che si è resa sempre più una disciplina chiusa in un circuito umanistico autoreferenziale –, sia gran parte della neuroestetica – che si è spesso limitata a considerare l'arte semplicisticamente come il risultato di un'attività chimico-elettrica del cervello –, offrono prospettive che si sono rivelate alla fine non così lungimiranti. Dato l'indiscutibile fatto – Gallese ovviamente non lo mette in discussione – che anche l'arte, come tutte le altre attività umane, è frutto di attività cerebrale, il neuroscienziato suggerisce però una visione più ampia del fenomeno artistico: «Il cervello, infatti, esprime la propria funzionalità solo ed esclusivamente perché legato a un corpo situato in un particolare mondo fisico, popolato da altri individui».
Il recupero della nozione di corpo non è affatto scontato: siamo gli epigoni di una millenaria cultura (da Platone a Cartesio all'Idealismo e, con l'eccezione di Merleau-Ponty, al neo-cartesianesimo) che offre una concezione disincarnata della conoscenza e del l'esperienza della realtà, e che continua a mettere da parte il corpo come una zavorra d'impaccio alla conoscenza stessa. La scoperta dei neuroni specchio, con l'originale elaborazione da parte di Gallese della categoria di «simulazione incarnata», ha indiscutibilmente rivoluzionato il mondo del l'estetica classica, inducendo l'idea che la visione non sia limitata al cervello visivo, ma sia al contrario un'attività multimodale, un'esperienza incarnata, appunto, nella quale un ruolo importante viene giocato anche dal cervello sensorimotorio, viscero-motorio ed emotivo: quella dell'arte è dunque un'esperienza vissuta da e con il corpo, perché il corpo a suo modo conosce.
Pertanto, studiare il fenomeno delle immagini artistiche semplicemente in un'ottica semiotico-ermeneutica, come ancora accade in ambito umanistico, escludendo la dimensione della "presenza" corporea nell'esperienza del l'arte, è riduttivo alla stessa stregua del riduttivismo neuroscientifico classico: «Quando entriamo in un museo, non ci poniamo di fronte a una semplice immagine» che il nostro cervello deve "decodificare", «bensì a un'immagine che trova la propria giustificazione nell'essere collocata in quello spazio» e che stimola non solo la nostra vista, ma anche e soprattutto il nostro corpo, la nostra memoria di vita e le nostre emozioni più profonde, suscitando in noi una risposta empatica.
La proposta di Gallese, lodevolmente ambiziosa, è quella di un immenso progetto multidisciplinare – le Neuroscienze Cognitive – al quale tutti gli ambiti della conoscenza possano e debbano collaborare, per poter ricostruire il puzzle attualmente disgregato del l'essere umano, per restituirlo cioè alla sua dimensione naturale di unicum inscindibile di mente e di corpo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Vittorio Gallese, Arte, corpo, cervello: per un'estetica sperimentale; in Micromega, 2/2014, pagg. 190, € 15,00

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