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Questo articolo è stato pubblicato il 18 maggio 2014 alle ore 08:13.

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L'opera è un itinerario complesso, un mondo da attraversare, una storia da offrire allo spettatore con ricchezza di modalità espressive e con toni alternati tra il versante comico e quello tragico. Così la concepiscono Nathalie Djurberg e Hans Berg, i due giovani premiati alla Biennale nel 2009, che hanno in corso una personale all'Art Institute di Boston. Narrazione, manufatti, una visione della vita come arena sia violenta che giocosa, si riverberano nel loro operato in modo non lontanissimo da quanto accade nella sala adiacente del museo, dove il sudafricano William Kentridge ha installato per un'ennesima volta l'ambiente The Refusal of Time: il complesso concerto per video, scultura e suoni concepito per Documenta 2012.
Nell'opera dei giovani svedesi intitolata A World of Glass ci troviamo in un ambiente oscuro, nel quale vengono proiettati quattro video concepiti in slow motion: oltre 150 statuette di poliuretano si agitano sulla scena come attori, modificando a ogni passo la loro forma, liquefacendosi per poi ricomporsi. La corporeità grottesca e fortemente erotica che trasmettono parla di relazioni bastarde tra uomini, cose, animali, in un continuo mutare delle apparenze: un cane lecca una ragazza e questa quasi si disfa, per poi riprendere la sua normale integrità salvo farsi poco dopo mostruosa come un'icona espressionista. È difficile non pensare all'eredità di autori anche molto lontani per epoca, ma accomunati dal senso della vita come brulichio di esistenze transitorie, quali Hieronymus Bosch, Pieter Bruegel, Francisco Goya, George Grosz, Otto Dix.
I video sono dunque animazioni in cui viene sottolineata la manualità dell'operazione: ogni scena è costruita con un apposito set, un certo tono delle luci, un modo di trasformare le figure col virtuosismo di un ceramista. I colori virano spesso all'eccessivo, contando sulle vibrazioni innaturali dei pigmenti sintetici. Il risultato è stupefacente ma inquieto, nel senso di un ribollente e diabolico andirivieni di bene e male.
A questi video si contrappongono grandi tavoli, che occupano la sala e ostacolano volontariamente il cammino, su cui sono posati elaborati oggetti di cristallo. L'estetica è quella del lampadario o del vaso barocco, ma sono stati pensati senza volere rivestire alcuna funzione se non quella decorativa. Così come i due artisti non temono, anzi ricercano un tenore da cantastorie, allo stesso modo non si spaventano di fronte a un gioco formale che tocca l'eccesso. La luce batte su questa popolazione di trasparenze come su statue barocche, lampeggiando a ogni curva e trasformando gli spigoli in altrettante punte stellate.
Dal confronto serrato tra film e oggetti emerge una visione duale e manichea tra brutto/bello, sporco/puro, dissoluto/ordinato. Tutto è troppo e ci abbacina. Gli stimoli sono così tanti da costringerci a una lunga sosta. Il divertimento dell'occhio si fa veicolo di una meditazione sulla morale.
Accade quello che suggeriscono molti filmati di artisti che lavorano, oggi come mai prima, su tecniche ibride di animazione, incrociando programmi specifici del computer con il disegno o la modellazione: tra gli esempi Wael Shawkly, i cui film sul nostro rapporto col mondo islamico sono realizzati con burattini creati dallo stesso artista, Mathias Poledna, che ripercorre con fedeltà ma anche ribaltamento critico le pratiche del primo Walt Disney, Paul Chan, che per mostrare la crudeltà potenziale di relazioni in cui vige la sopraffazione, usa tecniche filmiche che usano ora le ombre cinesi, ora quella dei videogiochi di guerra.
Ciò che rende ulteriormente interessante questa mostra, al di là del suo contenuto e della nuova importanza dei filmati di animazione, è il contesto cittadino in cui si innesta. Boston è piena di ricerca. La sua natura di città americana, anche se più europea delle altre, è la commistione dei luoghi deputati all'arte contemporanea con i centri universitari dove si studia di tutto e soprattutto la commistione dei due orizzonti creativi di tecnologia e nuove forme.
Attraversando nell'area di Cambridge il corridoio infinito che aggrega i diversi edifici del Mit, l'occhio passa senza soluzione di continuità su piedi robotizzati per mutilati, laboratori di ingegneria dove le vecchie radio a valvole si incrociano con computer di generazioni futuribili, opere d'arte pubblica che occhieggiano dalle grandi vetrate - Anish Kapoor, Mark Di Suvero, Sol LeWitt, Louise Nevelson tra gli autori - e biblioteche aperte anche a Pasqua dalle 8 alle 24. Un convegno sull'arte pubblica e una mostra degli studenti di arti visive si contamina con esperimenti sulla crescita dei vegetali e con una rassegna di protesi.
In tutta la città, gli ingressi classici di musei e università, a forma di tempio greco, davanti a cui si svolgono cerimonie di laurea goffamente copiate in Italia, si contemperano con l'architettura sull'acqua dell'Art Institute o con l'edificio asimmetrico nuovo, firmato da Frank O. Gehry, in cui l'emerito Noam Chomsky studia e, si dice, apra l'unica finestrella salendo su di una scala. Ingegneria, sociologia, design, arte e tecnologia, insomma scienze e humanities, vivono senza troppe rivalità e anzi si aiutano a vicenda, come mani che si lavano l'un l'altra.
Simbolo di questa convivenza e della mancanza liberatoria di ortodossia è l'Isabella Stewart Gardner Museum, ricostruzione di un palazzo veneziano e wunderkammer di infissi, statue, sedie, leoni, antichità cristiane così come buddiste. Frutto degli acquisti di una coppia e poi della volontà di una vedova, innamorata del ricordo del marito incarnata negli oggetti comprati nei viaggi insieme, ha recentemente ampliato la sua superficie grazie a un progetto di Renzo Piano per ospitare mostre, performance e didattica dedicate a pratiche nate da vari popoli: ora è in mostra il risultato ibrido tra arte contemporanea e tessitura manuale messicana di Carla Fernandez.

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