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Questo articolo è stato pubblicato il 20 maggio 2014 alle ore 11:54.
L'ultima modifica è del 20 maggio 2014 alle ore 14:20.

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L'esercito è rimasto alla finestra per sei mesi, mentre la crisi politica di Bangkok si avvitava su se stessa. Oggi, alle 3 del mattino, è intervenuto proclamando la legge marziale e condannando la seconda economia del Sud-est asiatico alla sospensione delle regole democratiche, l'ennesima. Poche ore prima, nella giornata di ieri, il bollettino economico sui primi tre mesi dell'anno diffuso dal governo ad interim aveva fotografato gli effetti dello stallo politico, certificando una contrazione del Pil del 2,1% sul trimestre precedente e dello 0,6% su base annua.

Dal 1932, l'esercito ha già messo in atto o tentato 18 colpi di Stato. Non stupisce quindi il nuovo intervento in una situazione estremamente complicata come quella in cui è finita Bangkok. Era anzi atteso, se non invocato, da chi aveva perso fiducia nelle capacità dell'establishment politico di uscire dal caos.

Dopo mesi di manifestazioni di piazza, a dicembre il partito di maggioranza dell'ex premier Yingluck Shinawatra e del fratello Thaksin (il Pheu Thai) ha sciolto il Parlamento e ha indetto nuove elezioni, sicuro di vincerle come ha sempre fatto dal 2001 in poi, grazie al consenso delle aree rurali e meno agiate del Paese. L'opposizione, altrettanto sicura di perdere, ha però boicottato il processo elettorale, impedendolo in alcune circoscrizioni. Risultato: il voto è stato annullato, lasciando la Thailandia con un governo ad interim svuotato dei poteri necessari per avviare il rilancio economico in un Paese provato dalla crisi globale.

Sull'allora premier Shinawatra sono quindi piovute accuse di nepotismo, per aver favorito la carriera di un parente ai massimi livelli dell'amministrazione pubblica, e di corruzione, per aver varato un programma di sostegno agli agricoltori di riso, bacino elettorale della famiglia. Yingluck è stata così deposta dalla carica di premier e rischia il bando dalla vita politica. Proprio come era già accaduto al fratello, il tycoon dei media e premier tra il 2001 e il 2006, quando è stato rovesciato da un golpe. Condannato poi per corruzione, è in esilio da anni, ma continua a influenzare la politica thailandese. Yingluch è il terzo premier rimosso dalla Corte costituzionale, i cui poteri sono stati rafforzati dalla giunta che prese in mano lo Stato dopo il golpe del 2006. Già due partiti fondati da Thaksin sono stati messi al bando, insieme a 130 politici.

Può gioire l'opposizione, quella parlamentare del Partito democratico, quella di piazza delle camicie gialle, guidate entrambe da leader inseguiti da accuse di strage: erano alla guida del Governo che nel 2010 autorizzò l'esercito a sparare sulle camicie rosse, i seguaci degli Shinawatra, scesi in piazza per protestare contro l'ennesimo colpo ai danni del loro movimento politico.
Sostenuti dalla classe media degli affari e dagli ambienti vicini alla monarchia e ai vertici dell'esercito, gli avversari politici degli Shinawatra chiedono da mesi la nomina di una sorta di comitato di salute pubblica, un nuovo governo senza passare per le elezioni, nominato con lo scopo di riformare lo Stato in modo da liberare il Paese "dall'influenza corruttrice degli Shinawatra", accusati di "comprare" il voto dei thailandesi con le loro politiche "populistiche".

Il Paese resta così spaccato in due, sempre sull'orlo di disordini violenti: nel 2010 gli scontri lasciarono sul terreno 90 morti. Le proteste cominciate a novembre hanno già provocato 25 vittime.

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