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Questo articolo è stato pubblicato il 21 maggio 2014 alle ore 06:37.

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I mercati per ora non sembrano scossi, né a Bangkok la vita scorre troppo diversa dall'ordinario. Da ieri però la Thailandia è sotto legge marziale. Rimasto alla finestra per sei mesi, mentre la crisi politica si avvitava, nella notte tra lunedì e martedì l'esercito ha rotto gli indugi e ha proclamato lo stato d'emergenza. Il comandante delle forze armate, Prayuth Chan-Ocha, si è affrettato ad assicurare che quello in atto non è un colpo di Stato e che l'unico obiettivo dei militari è garantire l'ordine e prevenire l'escalation degli scontri. Per ora il Governo può quindi restare al suo posto e non è stato dichiarato il coprifuoco. Resta che la seconda economia del Sud-est asiatico deve rassegnarsi alla sospensione delle regole democratiche.
Per le strade della capitale, già abituate da novembre a ospitare cortei di opposte fazioni ed episodiche esplosioni di violenza (28 morti e 700 feriti), da ieri stazionano soldati e blindati, mentre dieci emittenti satellitari sono state sospese e ai media è stato ordinato di non diffondere notizie allarmanti. Il sistema bancario e quello finanziario continuano invece a funzionare normalmente.
Lo stato d'emergenza è stato proclamato alle 3 del mattino, a poche ore dall'ennesimo bollettino sulla crisi economica del Paese: secondo i dati diffusi lunedì dal Governo, il nei primi tre mesi dell'anno il Pil si è contratto dello 0,6% su base annua e del 2,1% sul trimestre precedente. Il prezzo pagato allo stallo politico. Dal 1932, l'esercito ha già messo in atto o tentato 18 colpi di Stato (11 quelli riusciti), finendo per somigliare più a una costante che a un'eccezione nella vita politica del Paese. Il nuovo intervento non stupisce più di tanto, quindi. Al contrario, in molti scrutavano le mosse dei generali per indovinare quando si sarebbero decisi. Uno sviluppo atteso, se non invocato, da chi aveva perso ogni fiducia nell'establishment politico. Ieri, il responsabile di Fitch per l'Asia-Pacifico, non ha esitato a definire la legge marziale «non negativa per il rating della Thailandia: anzi potrebbe aiutare a far uscire il Paese dallo stallo politico». La Borsa ieri ha perso l'1%, il baht ha ceduto lo 0,2% sul dollaro (grazie anche alla Banca centrale che sarebbe intervenuta a sostegno) e i rendimenti sui titoli di Stato a 10 anni sono saliti di qualche decimale, restando sotto il 4%.
Dopo mesi di manifestazioni di piazza, a dicembre il partito di maggioranza, guidato dall'ormai ex premier Yingluck Shinawatra (il Pheu Thai - Per i thai), ha sciolto il Parlamento e ha indetto nuove elezioni, sicuro di vincerle come ha sempre fatto dal 2001, grazie al consenso delle aree rurali e meno agiate del Paese. L'opposizione, altrettanto sicura di perdere, ha però boicottato il processo elettorale, impedendolo in alcune circoscrizioni. Risultato: il voto è stato annullato e la Thailandia è rimasta con un Governo ad interim, privo dei poteri necessari per avviare il rilancio economico.
Sull'allora premier Shinawatra sono poi piovute accuse di abuso di potere, per aver favorito la carriera di un parente, e di corruzione, per aver varato un programma di sussidi agli agricoltori di riso, bacino elettorale della famiglia. Yingluck è stata così deposta dalla carica di premier dalla Corte costituzionale il 7 maggio e ora rischia il bando dalla vita politica. La stessa sorte del fratello Thaksin, il tycoon dei media e premier tra il 2001 e il 2006, quando fu rovesciato da un golpe. Condannato poi per corruzione, è in esilio dal 2008, ma continua a influenzare la politica thailandese. Yingluch è il terzo premier rimosso dalla Corte costituzionale, i cui poteri sono stati rafforzati dalla giunta che prese in mano lo Stato dopo il golpe del 2006. Già due partiti fondati da Thaksin sono stati messi al bando, insieme a 130 politici.
Ieri, il capo delle forze armate ha invitato i leader politici a trovare un compromesso e ha intimato ai loro sostenitori di non spostarsi dai rispettivi presidi. L'opposizione anti-governativa, quella parlamentare del Partito democratico, e quella di piazza delle Camicie gialle, sono guidate da leader inseguiti da accuse di strage: erano a capo dell'Esecutivo che nel 2010 autorizzò l'esercito a sparare sulle Camicie rosse, seguaci degli Shinawatra, scese in piazza per protestare contro l'ennesimo colpo ai loro danni (92 morti). Anche allora, fu proclamata la legge marziale, come nel 2006.
Sostenute dalla classe media degli affari e dagli ambienti vicini alla monarchia e ai vertici dell'esercito, le Camicie gialle chiedono la nomina di una giunta, senza passare per le elezioni, con lo scopo di liberare il Paese «dall'influenza corruttrice degli Shinawatra». Le Camicie rosse chiedono invece di restituire la parola agli elettori e di fissare nuove elezioni il 3 agosto. Il Governo, con molta cautela, ha salutato con favore l'iniziativa dei militari, limitandosi a rivolgere un appello alla calma e alla non violenza.
Scossa da crisi politiche, tanto frequenti quanto relativamente incruenti, la Thailandia ha saputo trovare la propria strada allo sviluppo, magari diseguale, affermandosi al tempo stesso come meta per i capitali esteri. Che ora vogliono capire come e quando supererà questa nuova prova.
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