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Questo articolo è stato pubblicato il 22 maggio 2014 alle ore 11:15.

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I contratti a termine di più lunga durata (oltre i sei mesi) hanno funzionato meglio come ponte per il passaggio a contratti a tempo indeterminato o a soluzioni stabili di genuino lavoro autonomo. Tra il 2010 e il 2011, dunque nel pieno della crisi economica ma in un contesto regolatorio pressoché stabile, contratti più lunghi si sono trasformati in assunzioni standard nel 32% dei casi contro il 21,8% di quelli più brevi.

Allo stesso tempo, il 35% dei soggetti con contratti di durata inferiore ai sei mesi sono poi finiti senza impiego, mentre chi aveva un contratto più lungo è «rimbalzato» nella disoccupazione solo nel 15% dei casi. Alte le percentuali di coloro che sono invece rimasti «in trappola» ovvero non sono usciti dal contratto flessibile: 38,3% per quelli con duration fino a sei mesi e 47,5% per gli altri.
L'ultima analisi sull'evoluzione della flessibilità in entrata del mercato del lavoro in tempi di crisi arriva dall'Isfol e prende in esame, sulla base di dati longitudinali, le principali transizioni sui quattro status che definiscono il mercato: lavoro standard, lavoro non standard (ovvero contratti flessibili e falsi autonomi), soggetti in cerca di impiego e inattivi.

Le stabilizzazioni con e senza crisi
L'indagine Isfol è sintetizzata in un articolo a firma dei tre economisti Emiliano Mandrone, Manuel Marocco e Debora Radicchia e offre notevoli coerenze con gli obiettivi perseguiti dal Governo con il decreto Poletti. Essere sul mercato con un contratto a termine paga. «I dati mostrano che i lavoratori non standard hanno performance migliori rispetto a coloro che erano nello stesso periodo alla ricerca di lavoro. Infatti, il 32,8% dei lavoratori non standard del 2010 è transitato verso un'occupazione standard (ponte) nell'anno successivo, vale a dire, in termini assoluti, un milione di lavoratori non standard su una nostra stima di poco più di 3 milioni. Mentre solo il 15,9% delle persone che si sono dichiarate alla ricerca di un lavoro nel 2010 ha trovato un'occupazione standard, ovvero poco meno di 600mila lavoratori».

Ma è anche vero che il contratto a termine è sinonimo in molti casi di «trappola» ovvero di permanenza nella condizione di precarietà almeno nel periodo analizzato: tra il 2010 e il 2011 il 42,2% dei contrattisti è rimasto tale (sono 1,3 milioni) mentre altri 600mila sono finiti senza impiego a scadenza del contratto (20%).
Gli analisti hanno confrontato le transizioni da una situazione occupazionale all'altra anche in un periodo di congiuntura favorevole (2005-2006) per leggere l'impatto comparativo della recessione.

La crisi ha minato la funzione di «ponte» dei contratti flessibili, visto che nel 2005-2006 le transizioni positive al lavoro standard sono state del 5% maggiori, ed ha appesantito i cosiddetti «rimbalzi» ovvero il ritorno di contrattisti alla situazione di disoccupazione (20% tra il 2010 e il 2011 contro il 5,9% del biennio di confronto). Da rilevare anche le espulsioni dal mercato di dipendenti standard, che passano dall'1,9% al 7,3% con la crisi.
Secondo Emiliano Mandrone sette anni di recessione hanno indebolito strutturalmente il mercato del lavoro e reso più vulnerabili profili occupazionali che solo dieci anni fa non lo erano mai stati. Servirebbero, più che ulteriori regole sui contratti, una generalizzata riduzione del costo del lavoro e politiche di sostegno della domanda di lavoro.

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