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Gavia 1988: la bufera, i soccorsi, l'addio al sogno della mia vita

Passo Gavia, 5 giugno 1988. Questo non è il racconto di una tappa, non solo: è anche un pezzo della mia vita che se n'è andato per sempre.

Quel 5 giugno il Giro d'Italia parte da Chiesa Valmalenco e arriva a Bormio: i corridori devono percorrere solo 120 chilometri ma in mezzo, dopo l'Aprica, c'è da affrontare il Gavia. Una salita che mette paura a tutti, con poco asfalto e molto sterrato, con tornanti secchi e una pendenza che arriva al 16 per cento. Una tortura infinita di 12 chilometri: perché dopo il tratto iniziale, appena fuori Ponte di Legno, una volta passata Santa Apollonia non lascia mai il tempo di un respiro per riprendere fiato.

I corridori partono come sempre in piena estate, con maglietta a maniche corte e pantaloncini, anche se devono affrontare una tappa di alta montagna. Ma il Gavia quel giorno non è solo alta montagna: sta preparando tutto il campionario che la forza della natura può mettergli a disposizione, pronto a scaricarlo su chi sta salendo i suoi ripidi fianchi.

Su, al Passo, aspettavamo l'arrivo dei corridori: insieme all'amico Alberto guardavamo i fiocchi di neve che scendevano come a dicembre domandandoci se davvero li avrebbero fatti passare, in quelle condizioni. In ogni caso eravamo saliti al Gavia proprio per quello, lasciando per un paio di giorni il lavoro in ospedale: in alta montagna ci può sempre essere bisogno di soccorso. Ora dopo ora, minuto dopo minuto la situazione peggiorava: la nevicata si era trasformata in tormenta, le nubi avevano avvolto il Passo, la visibilità era ridotta a pochi metri. E il vento, come una lama gelata, soffiava fino a rendere quasi impossibile stare in piedi.

Eppure, all'improvviso, ecco iniziare una processione di uomini in bicicletta coperti di neve, intrappolati in uno scafandro di ghiaccio, pietrificati dal gelo eppure ancora in grado di mulinare i pedali, di chiedere aiuto con le ultime forze rimaste. Impossibile riconoscerli: che per primo fosse passato Van der Velde, che Hampsten avesse conquistato la Maglia Rosa e vinto il Giro, che Franco Chioccioli fosse crollato stremato dal gelo e dalla neve lo avremmo saputo solo il giorno dopo.

Su, al Passo del Gavia, la preoccupazione di tutti era soccorrere i corridori, aiutarli a scendere dalla bicicletta, portarli al caldo, asciugarli. Tutti, senza distinzione. Era scomparso il tifo per i campioni e in chi si era arrampicato sul Passo per sostenere i propri beniamini rimaneva solo l'istinto di aiutare gli uomini che, in fila indiana, scollinavano fermandosi per mettere fine al loro calvario.

Ero felice, quella sera: dopo tutto avevo fatto il mio lavoro, quello che avevo sempre sognato di fare. Non sapevo che tornando a Milano da lì a pochi giorni avrei dovuto affrontare il mio, di Gavia: diagnosticando a mia mamma un tumore al cervello che il grande luminare che l'aveva in cura non aveva saputo intuire. L'ultima diagnosi della mia vita, quella che non avrei mai voluto fare. Mia mamma se ne sarebbe andata in pochi mesi, sciogliendosi tra le mie mani come un fiocco di neve impossibile da trattenere. Io avrei chiuso, per sempre, con la medicina.

Ecco perché il Gavia dell'88 per me non è solo una tappa, ma un pezzo della mia vita.

P.S. Ho iniziato a salire al Gavia quando avevo 12 anni. Lì ho imparato a scalare le vette più belle del mondo, che lo circondano con amore, avendo come maestro Dante Vitalini, una delle più grandi guide che la Valtellina abbia mai avuto. Lì ho trovato gli amici del Rifugio Bonetta: Chicco, Silvano, Fabrizia ed Elisa, in rigoroso ordine di età. Lì ho vissuto momenti indimenticabili. Lì mi sono innamorato di Maria Grazia, una donna straordinaria che ogni giorno della sua vita sopporta i miei difetti e le mie debolezze. Per questo, da 41 anni, ci torno tutte le volte che posso. Per me è un appuntamento immancabile.

Potete salirlo in macchina e in moto, oppure sfidarlo in bicicletta: l'asfalto ha addolcito i suoi fianchi ma non ha modificato lo scenario che si trova appena raggiunto il Lago Bianco. Lo sguardo abbraccia le Alpi dal Gran Zebrù all'Adamello. Non passateci di fretta, con lo sguardo distratto di chi rimane con la testa in città. Prendetevi del tempo, muovete qualche passo sui sentieri che lo circondano: non capita spesso di camminare in Paradiso. E se proprio non ce la fate a camminare, sedetevi al Rifugio Bonetta di fronte alla grande vetrata che incornicia la vetta del San Matteo e chiedete un piatto di pizzoccheri del Chicco: in fondo anche quelli sono un pezzetto di Paradiso.

Dimenticavo: il mio amico Alberto ha proseguito con il suo sogno, è ancora il mio medico.

(ml@ilsole24ore.com)

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