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Questo articolo è stato pubblicato il 25 maggio 2014 alle ore 08:14.

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Circa un secolo fa, il sociologo Max Weber coniò il concetto di carisma per definire una peculiare forma di potere politico, il potere carismatico, che ha origine da una persona ritenuta in possesso di doti straordinarie da parte di coloro che lo scelgono come capo, e lo seguono con entusiasmo e dedizione perché lo considerano investito di una missione.
Carisma in greco significa 'grazia'. Se consideriamo la frequenza con la quale questo termine è stato attribuito a vari politici italiani nell'ultimo ventennio - da Di Pietro a Berlusconi, da Bossi a Grillo, da D'Alema a Renzi - si dovrebbe concludere che l'Italia è un Paese pieno di grazia carismatica. Che ci siano tanti capi carismatici può essere una conseguenza della personalizzazione della politica italiana, derivata dallo sbriciolamento dei partiti di massa, sostituiti da partiti personali o padronali. In realtà, la personalizzazione della politica è stata costante nella storia dell'Italia unita, ma nel secolo scorso i leader carismatici non erano frequenti. Basti pensare ai presidenti del Consiglio che hanno governato più a lungo nell'Italia monarchica, come Depretis, Crispi, Giolitti: nessuno, tranne forse Crispi per qualche tempo, fu considerato un leader carismatico.
Poi ci fu per un ventennio il dominio carismatico di Mussolini, che ebbe origine da peculiari doti personali di oratore e di giornalista, e fu istituzionalizzato nel regime totalitario fascista con il culto del duce. Nella storia del ventesimo secolo, il carisma mussoliniano è stato un fenomeno singolare e per certi aspetti unico. Infatti, a Mussolini furono attribuite doti di leader carismatico molto prima del fascismo, fin dal 1912, quando a ventinove anni balzò sulla scena nazionale come leader del partito socialista. Il Mussolini socialista perse il carisma nel 1914 perché, convertito all'interventismo, fu considerato un traditore dalle masse socialiste. Dopo la Grande Guerra, Mussolini dovette faticare anche nel movimento dei Fasci, da lui fondato nel 1919, per essere riconosciuto leader carismatico: infatti, nell'estate del 1921 i capi dello squadrismo si ribellarono contro di lui perché aveva fatto la pace con i socialisti e voleva smilitarizzare il fascismo. Il carisma del Mussolini duce fu accettato definitivamente solo dopo l'instaurazione del regime a partito unico nel 1926.
Da allora, fino alla vigilia del 25 luglio 1943, Mussolini fu esaltato come duce supremo, che incarnava la missione fascista di creare un'Italia imperiale e una nuova civiltà. Il culto del duce divenne un modello per esperienze analoghe non solo nei regimi fascisti o parafascisti, ma anche nella Russia sovietica, dove l'istituzione del culto di Stalin avvenne nel 1929, affiancandosi al culto di Lenin, istituito nel 1924 dopo la morte del leader carismatico del bolscevismo.
Caduto il fascismo e abolita la monarchia, nell'Italia repubblicana i partiti antifascisti esorcizzarono il mito del carisma mussoliniano, ma i nuovi partiti di massa, la Democrazia cristiana, il Partito socialista e il Partito comunista, non si sottrassero all'influenza dell'esperienza carismatica come fenomeno di aggregazione e di mobilitazione collettiva. Tuttavia, non tutti i leader dei tre partiti furono carismatici. Non lo fu De Gasperi, anche se per un decennio fu il leader della Democrazia cristiana e per sei anni ebbe autorevolmente la guida del governo italiano nella fase più ardua della ricostruzione dell'Italia. Del resto, difficilmente poteva diventare carismatico il leader di un partito che aveva già una suprema guida carismatica nella figura del pontefice. E poco di carismatico aveva la personalità di De Gasperi, un «uomo vestito di grigio, con i suoi occhi grigi così poco cesarei, col suo volto di pietra, grigio anch'esso», come lo descrisse Montanelli nel 1949. De Gasperi era un leader che suscitava rispetto ma non entusiasmo e dedizione carismatica negli altri dirigenti e nella massa democristiana.
Il leader socialista Nenni aveva doti potenzialmente carismatiche, come la fede nella missione rivoluzionaria del socialismo, il fascino oratorio, l'efficace stile giornalistico che suscitavano entusiasmo nelle masse, ma non riuscì a unire nella dedizione alla sua persona un partito afflitto da scissione cronica. Solo Palmiro Togliatti, leader del Partito comunista fin dal suo rientro in Italia dalla Russia nel 1944, divenne un capo carismatico per la massa dei militanti del suo partito, anche se non tutti gli altri dirigenti comunisti accettarono senza discussione la sua leadership. Alla costruzione del carisma di Togliatti contribuirono il mito di Stalin, dell'Unione sovietica e della rivoluzione bolscevica, la struttura rigidamente unitaria e centralizzata del partito comunista, e la trasfigurazione mitica di Antonio Gramsci come "grande italiano", avvenuta nel 1947, nel decennale della sua morte. Nei manifesti del Pci, l'immagine di Gramsci appariva accanto a quella di Togliatti, anch'egli "grande italiano", il compagno fedele e il migliore erede del leader sardo, morto prigioniero del fascismo.
Il carisma di Togliatti fu consacrato con un culto della personalità iniziato fin dal 1945 e intensificato dopo l'attentato da lui subito nel 1948, soprattutto con la celebrazione del suo sessantesimo compleanno nel 1953, anno della morte di Stalin. In quello stesso anno, tramontò definitivamente la leadership di partito e di governo di De Gasperi, "uomo solo", che moriva l'anno dopo. Intanto Nenni continuava a essere il leader prestigioso di un partito che, oscillando fra riformismo e massimalismo, non riusciva a scegliere la strada per compiere la sua missione, rimanendo vincolato al patto di unità d'azione col più forte e carismatico Partito comunista.

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