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Questo articolo è stato pubblicato il 25 maggio 2014 alle ore 08:15.

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Dopo una competizione di medio livello, il 67º Festival di Cannes si conclude con un palmarès combattuto ed "ecumenico": hanno vinto in tanti, tranne, per una volta, i fratelli Dardenne, nonostante in Deux jours, une nuit siano stati come sempre stringati, attaccati alle facce, alle cose, alle case, alla tragedia quotidiana della sopravvivenza. Palma d'oro a Winter Sleep di Nuri Bilge Ceylan, che immerge nel silenzio e nella neve dell'Anatolia il rendiconto esistenziale di un commediografo e, in più di tre ore di dialoghi ossessivi, realizza un'opera dove l'immagine si fa supporto a un flusso di parole che divampa e dilania, nello stesso tempo ingannevole e rivelatore, alla disperata ricerca di una quiete interiore che forse solo un gesto, uno sguardo o, infine, il silenzio possono concedere. Gran premio della giuria a Le meraviglie di Alice Rohrwacher, onesto, umano tentativo di raccontare un ideale di purezza irrisolto, commovente nel ritratto di una "sorellanza" e un'infanzia inquieta, meno compiuto nella storicizzazione di un sogno. Migliore regia a Foxcatcher di Bennett Miller, classica storia di sport e differenze di classe e confusione di ruoli paterni e fraterni, dove il cinismo del denaro finisce per farla da padrone. Migliore sceneggiatura a un film che non lo meritava, il russo Leviathan di Andrey Zvyagintsev, che non ci risparmia nulla, commedia, thriller, violenza del potere, metafora debordante. Ma è con il Premio della giuria che il palmarès stupisce positivamente: un ex aequo per il più giovane e il più vecchio dei concorrenti, il venticinquenne canadese Xavier Dolan e l'ottantatreenne Jean Luc Godard. Adieu au langage è lo scherzo mirabolante di Godard, che non solo espone la sua apocalittica visione sulla fine della lingua (immagini e parole), ma ci mostra anche in due fulminanti pezzi di bravura (un contemporaneo campo/controcampo, o campo/fuoricampo) le potenzialità del 3D, e ci invita a tornare a una dimensione percettiva tipo quella di Roxy, il suo cane, il vero protagonista, che attraversa prati, strade, un fiume, pioggia e neve, e alla fine si addormenta esausto sul divano, sognando le Isole Marquesa. "Non dipingiamo quello che vediamo, perché non vediamo niente; dipingiamo quello che non vediamo", cita il film, da Monet: questo ci fa vedere Godard, purché sappiamo abbandonarci al suo flusso, solo per il piacere dell'intelligenza e dello sguardo. E la stessa predisposizione al flusso delle immagini ci accompagna attraverso Mommy, quinto film di Dolan, che costringe i tre protagonisti della sua straziante saga familiare (mamma incontenibile, figlio difficile, vicina di casa balbuziente) dentro una striscia verticale che taglia i lati dell'inquadratura (e si allarga solo in due sequenze oniriche), concentrato su primissimi piani o figure intere, in un accumulo di rabbiosa, inesauribile energia. Nella sua autoconsapevolezza, Mommy può addirittura infastidire, ma trasmette una rara vitalità.
Ma altri film, più o meno sotterraneamente, lavorano sulla revisione linguistica. Nei primi decenni dell'Ottocento, c'era un grande pittore inglese, William Turner, che non riusciva a confrontarsi con la figura umana; infatti, dipinse soprattutto marine, distorcendo paesaggi, oceani, cieli e navi con la potenza della luce, entità divina dell'occhio pittorico, fotografico e poi cinematografico. Spinto dall'afflato romantico, s'interrogava sul linguaggio e sulla necessità di staccarsi dalla "scorza" del corpo. Così, un film in superficie "illustrativo" come Mr. Turner di Mike Leigh è invece, nella sostanza, un affettuoso gioco sulle contraddizioni tra l'essenza dell'arte e la natura dell'artista, qui riassunta dalla figura debordante e borbottante di Timothy Spall (premio come migliore attore), quintessenza del grottesco vittoriano tramandatoci da illustratori dickensiani come Phiz e Cruikshank. E ancora, il lavoro di stratificazione compiuto da Olivier Assayas con Sils Maria, che è insieme una vertiginosa rilettura di Eva contro Eva di Mankiewicz, un accorato sguardo al passato, una contemplazione muta di fenomeni come "il serpente della Maloja", la coltre di nuvole portate dal vento tra le vette del Sils Maria che ispirò a Nietzsche la teoria dell'eterno ritorno. Bellissimo ritratto di un'attrice arrivata a un punto cruciale della vita e della carriera, Sils Maria per certi aspetti ricorda Maps to the Stars di David Cronenberg, anche questo un film su un'attrice hollywoodiana (la generosissima Julianne Moore, migliore attrice) che ritorna al passato, decisa a interpretare la parte che, decenni prima, ha reso celebre la madre. Il film di Cronenberg, a differenza di quello di Assayas, aspira a un ritratto incendiario del rimosso, e mescola incesti e fiamme, annegamenti e fantasmi, ragazzini prodigio e star in declino, misticismi, Freud, Jung, ayurvedica, dietologia, droghe, per raccontare una Hollywood implosa come quella di Scene di lotta di classe a Berverly Hills di Bartel (scritto da Bruce Wagner, sceneggiatore anche di Maps), o addirittura defunta come quella di Il canyon delle ombre, bel romanzo di fantasmi di Clive Barker.
Se non c'è nessun rimpianto per il fiacco Jimmy's Hall di Ken Loach, per il pessimo Captives di Atom Egoyan, per il vecchissimo The Search di Michel Hazanavicius o il "pompieristico" Saint Laurent di Bertrand Bonello, e nemmeno per la brava Naomi Kawase, che con Futatsume no mado devia dall'abituale rigore per realizzare un prontuario del cinema giapponese da festival, dispiace che la giuria abbia perso per strada uno dei film più belli e più visceralmente femminili della competizione: The Homesman, il western anomalo di Tommy Lee Jones, che racconta il viaggio all'indietro di una pioniera sui generis, per riportare all'est verdeggiante e ipocrita tre donne impazzite nell'ovest durissimo, dove, si sa, nessuna donna vale un buon cavallo.

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