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Questo articolo è stato pubblicato il 03 giugno 2014 alle ore 06:37.

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ROMA
Mai nelle aree a rischio di terremoti, ma anche di instabilità geologica o di qualche smottamento se piove forte. E guai ad avvicinarsi alle falde acquifere, o a «risorse naturali già sfruttate o di prevedibile sfruttamento». In ogni caso bisognerà mantenersi lontano dei fiumi e ancor più dalle dighe o da «sbarramenti idraulici artificiali», ad almeno 10 chilometri dalle coste marine, ad «adeguata distanza» dai centri abitati, lontani almeno 1 km dalle autostrade, dalle principali strade extraurbane, dalle ferrovie. Niente da fare al di sopra dei settecento metri di altezza, o dove esistono «versanti con pendenza media maggiore del 10%». Da escludere anche le aree dove gli animali o le vegetazioni abbiamo una qualche forma di particolare protezione. E comunque andrà attentamente valutata anche la vicinanza «all'insediamento di produzioni agricole di particolare qualità è tipicità», o anche ai «luoghi di interesse archeologico e storico».
Ecco, ancora riservati, i criteri vincolanti per una missione decisamente ardua: piazzare nel nostro paese il deposito nazionale unico delle scorie nucleari. I nuovi criteri, che Il Sole 24 Ore è in grado di anticipare, dovrebbero essere pubblicati ufficialmente in settimana dal primo artefice dell'operazione, l'Ispra, l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale. Poi la palla passerà alla Sogin, la società pubblica nata per smontare le nostre vecchie centrali, per gestirne i pericolosi detriti e appunto per realizzare il deposito nazionale unico. Ma il percorso sarà ancora lungo, lunghissimo.
Per confrontare la versione semidefinitiva della mappa la Sogin dovrà tra l'altro organizzare un seminario nazionale di proporzioni decisamente ciclopiche. Parteciperanno «oltre ai Ministeri competenti e all'Agenzia, le Regioni, le Province ed i Comuni, nonché l'Upi (province, sempre che nel frattempo non vengano davvero abolite) l'Anci (comuni), le associazioni degli industriali e le associazioni sindacali «maggiormente rappresentative», le università e gli enti di ricerca.
Poi una serie di passaggi ulteriori, con una nuova tornata di «indagini tecniche». Infine, se davvero si potrà traguardare una fine, si tenterà la strada della consultazione con i rappresentanti dei territori frutto dell'ultima selezione, tentando un negoziato, magari grazie (azzarda qualcuno) alla promessa di affiancare a deposito un centro di ricerca sulle tecnologie energetiche e ambientali che catalizzi prestigio e soprattutto un po' di lavoro e di business per le comunità locali. Il via libera dovrà venire in ogni caso dalla Regione. A quel punto il progetto del deposito potrà ufficialmente nascere con un decreto che dovrà essere siglato da una folta compagine di ministeri: Sviluppo economico, Ambiente, Infrastrutture, Istruzione e Ricerca.
Missione ardua? Di più. Non sarà solo un problema di tempi, inevitabilmente lunghi: non meno di quattro anni dalla pubblicazione ufficiale dei criteri Ispra solo per arrivare alla soglia della proclamazione ufficiale del sito. Mettendo in fila i primi vincoli individuati dall'Ispra la missione diventa quasi impossibile. Perché incrociando le caratteristiche del nostro territorio con gli infiniti criteri di esclusione già individuati (criteri "minimi" e dunque ulteriormente integrabili in senso restrittivo, specifica oltretutto l'Ispra) emerge un segnale già chiaro: la maggior parte dell'Italia sarà tagliata fuori sin dall'inizio. E, c'è da giurarci, gli amministratori locali delle zone selezionate avranno, o comunque tenteranno di avere, buoni margini per alzare nuove barricate.
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