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Questo articolo è stato pubblicato il 04 giugno 2014 alle ore 11:06.
L'ultima modifica è del 04 giugno 2014 alle ore 14:08.

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Non si ferma il declino industriale dell'Italia che perde posizioni nella classifica mondiale dei produttori manifatturieri sotto la pressione dei Paesi emergenti. L'allarme è nel rapporto "Scenari Industriali" del Centro studi Confindustria, secondo cui il calo produttivo medio del 5% registrato tra 2007 e 2013 è costato al Belpaese il sorpasso di India (sesto posto) e Brasile (settimo posto), cresciute rispettivamente nello stesso periodo del 6,2% e dello 0,8%. Negli ultimi dodici anni, dal 2001 al 2013, nel manifatturiero, l'Italia ha visto un milione e 160 mila addetti perdere il lavoro e 120 mila imprese chiudere i battenti. E se tra il 2000 e il 2013, l'incremento dei volumi prodotti a livello mondiale è stato del 36,1%, l'Italia ha registrato un calo del 25,5%, scivolando man mano dal quinto all'ottavo posto globale, in una classifica che resta guidata, nell'ordine, da Cina, Stati Uniti, Germania e Corea del Sud.

Italia scende dal quinto all'ottavo posto nella manifattura
In sei anni quindi l'Italia è passata dal quinto all'ottavo posto (sorpassata dal Brasile, al settimo posto) nella graduatoria internazionale dei maggiori paesi produttori elaborata annualmente dal CsC. In sè rimane un ottimo piazzamento, se si considera che il Paese è 23esismo per «stazza demografica», fa notare il CsC. Ma l'arretramento va al di là della fisiologica avanzata degli emergenti, perché è stato accentuato da «demeriti domestici»: nel 2007-2013 la produzione è scesa del 5% medio annuo, una contrazione che non ha riscontro negli altri più grandi paesi manifatturieri.

Calo della domanda interna e aumento del costo del lavoro
Tra le cause più prossime di questa dinamica, molte delle quali si intrecciano e accavallano, ci sono il calo della domanda interna, l'asfissia nel credito, l'aumento del costo del lavoro slegato dalla produttività, la redditività che ha toccato nuovi minimi.

I fattori di ripresa
CsC fa notare che «la reattività delle imprese ha consentito di conquistare competitività su fattori diversi dal Clup (costo del lavoro per unità di produzione, ndr),migliorando il posizionamento nel Trade Performance Index (basato su un articolato set di indicatori), ottenendo il quinto surplus nella bilancia commerciale di manufatti, preservando (e anzi aumentando) le risorse finanziarie destinate alla ricerca e all'acquisto di brevetti e licenze, rafforzando il contenuto di valore aggiunto del proprio export. Infine, molte imprese italiane hanno adottato cambiamenti strategico-organizzativi, con l'obiettivo di aumentare le chance di stare sul mercato nel breve e nel lungo periodo.

L'erosione della «base produttiva»
Ma tutto questo «non è stato sufficiente, né poteva esserlo, a impedire la massiccia erosione della base produttiva» che il CsC documenta e dettaglia nei contorni regionali e settoriali, utilizzando i dati strutturali dei censimenti (2001 e 2011) e delle rilevazioni intermedie . Un quadro «impietoso», con una contrazione di oltre 100mila unità locali e quasi un milione di addetti. Che è proseguita nel biennio successivo: altri 160mila occupati e 20mila imprese perduti.

I problemi della Ue
Certo, il problema è comune a tutta l'Ue, che con l'eccezione di due isole felici (Germania e Polonia, ma per quanto a lungo?), «regredisce nel confronto industriale globale, pagando anche in ciò un alto prezzo alla gestione della crisi», perseguendo politiche fiscali restrittive e «patendo il paradosso di un euro che si apprezza, specialmente nei confronti delle valute di molte economie emergenti»: un freno del driver (l'unico) delle esportazioni, soprattutto verso le aree più dinamiche.

Italia senza forte politica industriale
In generale, però, nei più grandi paesi avanzati la politica industriale è tornata a essere utilizzata come leva normale di governo dell'economia, con la stessa dignità di quelle di bilancio e monetaria. Anche in ciò il comportamento dell'Italia «diverge», avendo abbandonato il programma di rilancio industriale avviato nel 2006 con "Industria 2015" (e di fatto bloccato già nel 2008). Solo di recente, fa notare CsC, su iniziativa del Miur, sono state individuate «alcune aree tecnologiche intorno alle quali aggregare enti di ricerca e imprese industriali». Eppure, sottolinea CsC, la creazione di cluster territoriali specializzati è importante, perché «mette in moto meccanismi virtuosi di sviluppo attraverso l'accumulazione di conoscenze e quindi sviluppo cumulativo delle attività manifatturiere, che consentono di creare nuovi vantaggi competitivi».

Manifatturiero da riportare in auge
Di qui la necessità di «vitali interventi tempestivi», perché partire in ritardo, «significa perdere terreno nei confronti dei paesi concorrenti che già si sono avviati lungo questo percorso. Un'urgenza, quella dell'iniziativa politica per mettere al centro il settore manifatturiero, dettata anche dalle sfide che i cambiamenti tecnologici propongono. A partire dalla digitalizzazione della manifattura, che ridefinisce il dialogo tra computer e macchine, facilitato da internet.

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