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Questo articolo è stato pubblicato il 05 giugno 2014 alle ore 06:37.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:51.

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(AP Photo)(AP Photo)

Un'erosione costante che in dodici anni ha portato alla perdita di 120mila unità produttive e 1 milione e 160mila occupati. È questa la fotografia dinamica della manifattura italiana dal 2001 ad oggi, un universo che si restringe mentre nel mondo è in atto un processo di espansione.
Gli Scenari industriali del Centro studi di Confindustria rilevano come a livello mondiale, dal 2000, la produzione manifatturiera abbia registrato un aumento del 36% a prezzi costanti, un segno più che se pure ridotto si è mantenuto anche tra il 2007 e il 2013 (+10%). L'Italia fa però storia a sé, visto che dal 2007 la produzione è crollata del 25,5% coinvolgendo tutti i comparti industriali fatta eccezione per il settore alimentare e delle bevande. Il nostro sistema industriale, paradossalmente, in generale fa peggio proprio dove altri Paesi vanno meglio. Si allarga la forbice con l'andamento mondiale e la conseguenza è la discesa dell'Italia, in sei anni, dal quinto all'ottavo posto nella graduatoria dei Paesi produttori: superata da Corea del Sud, India e ora anche Brasile.

Hanno influito i condizionamenti europei, con tutta la Ue che ha perso peso nel confronto industriale globale, e un contesto dominato da politiche di bilancio restrittive e dall'euro forte. L'Italia ha però i suoi punti di debolezza, come l'asfissia del credito, il costo del lavoro slegato dalla produttività, la redditività ai minimi e soprattutto l'andamento della domanda interna, decisamente negativo rispetto a diversi Paesi competitor, un fattore chiave nella diminuzione del 5% medio annuo della produzione tra il 2007 e il 2013.
«Rispetto a precedenti edizioni del rapporto – spiega Luca Paolazzi, direttore del Csc – abbiamo provato a misurare la contrazione del manifatturiero in termini di fabbriche e addetti perduti». Confrontando i censimenti sull'industria del 2001 e del 2011, si registra una contrazione di oltre 100mila unità locali e quasi un milione di addetti. Un calo, aggiunge Paolazzi, proseguito nel biennio 2012-2013: altri 160mila occupati e 20mila fabbriche perdute. Csc propone una radiografia per settori – da cui emerge che macchinari, auto, alimentari, farmaceutica hanno riportato le perdite minori – e per regioni: trend peggiore per Puglia, Piemonte, Lombardia, Veneto, mentre sono andate meglio Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige.

Il rapporto rende però anche giustizia ai meriti e ai punti di forza che, nonostante tutto, continuano a caratterizzare il nostro manifatturiero. È migliorato il posizionamento nel Trade performance index (dove siamo indietro solo alla Germania) ed è stato ottenuto il quinto surplus nella bilancia commerciale di manufatti con un parallelo rafforzamento del contenuto di valore aggiunto dell'export (abbiamo superato la Francia). Contemporaneamente, osserva Paolazzi, sono state non solo preservate ma anche aumentate le risorse finanziarie destinate alla ricerca e all'acquisto di brevetti e licenze. Diverse le imprese, anche piccole, che hanno adottato cambiamenti strategici ed organizzativi per affrontare la crisi. E non manca la vivacità di un'avanguardia che guarda alle nuove prospettive offerte dalla cosiddetta manifattura "additiva", basata sull'evoluzione della stampa 3D.
È in questa complessa cornice che, ribadisce il Csc, occorrono «interventi tempestivi» a sostegno della manifattura italiana. Interventi che mettano l'industria in grado di intercettare i grandi cambiamenti mondiali. Questi ultimi ruotano attorno a una progressiva intensificazione del commercio di prodotti industriali a livello di grandi blocchi regionali. Il commercio mondiale sta cambiando volto: un'integrazione più marcata tra manifattura e servizi, sempre più semilavorati, sempre più importanza alla prossimità fisica della produzione ai centri decisionali dell'impresa. Di qui fenomeni come il "reshoring" in atto negli Usa, ovvero il ritorno di produzioni precedentemente portate all'estero, e la valorizzazione del manifatturiero in territori specifici, cluster di sviluppo e tecnologici su cui molti Paesi si stanno orientando mentre l'Italia sembra ancora rincorrere.

IL TREND

-25,5% - Calo produzione
A fronte di un aumento della produzione industriale mondiale che nel periodo 2007-2013 è stato di quasi il 10 per cento (a prezzi costanti), in Italia c'è stato contemporaneamente un crollo del 25,5 per cento. Per un calo medio annuo nell'ordine del 5%

-5%- Domanda interna
Nel 2013 l'Italia ha perso, in termini reali, circa il 5% di domanda interna apparente rispetto al 2000. Si tratta dell'unico segno negativo tra i Paesi considerati dal rapporto

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