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Questo articolo è stato pubblicato il 05 giugno 2014 alle ore 06:38.

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MILANO
In Italia ci sono altoforni difesi con le unghie e con i denti che vengono spenti e altri che, a forza di essere messi sotto accusa, rischiano a loro volta di essere chiusi, nonostante i tentativi di tenerli attivi. Comunque la si guardi, l'acciaio italiano non gode di buona salute, e nemmeno di grande popolarità. Nessuno poteva immaginare anni fa un destino simile per veri e propri presidi per il manifatturiero italiano come Ilva, Lucchini, Acciai speciali Terni. Lecito quindi chiedersi che cosa ne sarà, fra qualche anno, di questo settore, oggi schiacciato tra (legittime) esigenze ambientali e le spinte di un mercato che da tempo ha spostato altrove il suo baricentro.
Il portale siderurgico Siderweb, che si prepara a disegnare i contorni della sesta edizione di Made in Steel (la fiera dell'acciaio, che sarà ospitata nel 2015 a Rho Fiera) di domande se ne è fatte molte. Le ha rivolte alla platea degli imprenditori dell'acciaio che si interfaccia con il sito e che costituisce una vera e propria community. Il risultato dell'indagine, realizzata dal consorzio Aaster guidato da Aldo Bonomi, conferma la fiducia degli operatori nella strategicità di settori cardine dell'industria italiana, ma evidenzia anche i limiti di un settore che, lungo la filiera, appare ancora sottocapitalizzato, diviso, privo di una strategia di lungo periodo. «Siamo a un bivio – spiega Emanuele Morandi, presidente di Siderweb –: il rilancio dovrà essere nel segno della conoscenza e della sostenibilità. Soprattutto, dobbiamo puntare su di un approccio di filiera: non possiamo più permetterci di vivere in modi separati».
Una presa di coscienza del genere sarà fondamentale in un futuro in cui l'Italia, ma anche l'Europa, saranno periferiche nella geografia dell'acciaio. Secondo le proiezioni al 2030 curate dal responsabile del centro studi di Siderweb, Gianfranco Tosini, il futuro dominus dell'acciaio mondiale sarà senza dubbio la Cina, da cui giungerà il 51% della produzione (oggi è il 49%, ma solo 18 anni fa era il 12,7 per cento). Crescerà anche l'Africa e, grazie alla disponibilità di gas a prezzi bassi, anche il continente americano reggerà l'urto. Sarà quindi soprattutto l'Europa, ridotta ad un peso del 9% sul tonnellaggio totale, a pagare il prezzo di questo riposizionamento. Già oggi, nel ranking delle prime 50 imprese dell'acciaio, solo tre sono europee (e in una di queste, ArcelorMittal, il peso del capitale indiano è preponderante). «É prevedibile uno spostamento dal ciclo integrale al ciclo elettrico» aggiunge poi Tosini. I vincoli ambientali e l'esigenza di flessibilità produrranno meno altoforni e più forni elettrici. «La tendenza è sostituire i vecchi impianti con produzioni meno inquinanti che, grazie alle nuove tecnologie – aggiunge il responsabile del centro studi –, garantiranno comunque acciaio di qualità». Il recente accordo di Arvedi con Rizhao, relativo alla realizzazione di 4 linee produttive con la tecnologia Esp, va proprio in questa direzione. Gli italiani sono maestri nel forno elettrico, ma la conseguenza del ricorso massiccio all'elettrosiderurgia sarà l'aumento del prezzo del rottame e l'espansione del mercato dei materiali preridotti. Giocoforza, i nuovi «signori della guerra» del futuro saranno i paesi che potranno contare su bassi costi energetici, dal Medio Oriente agli Usa (grazie allo shale gas).
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